Fuge, tace, quiesce1. Un ricordo di Cristina Campo2

ma ora non sei più là, sei tra le grandi ali incerte
trapassate dal vento, negli aeroporti di luce3


Ricordare Cristina Campo non può che essere un balbettare, un evocarne le superiori sfere di esistenza: il fiabesco volteggiare tra ripidi incanti e ardue discipline, la forza espressiva purissima, l’orecchio assoluto per le luminose sillabe sonore4 dello stile e dello Spirito; come per le simili, cortesi castità del canto gregoriano. Un librarsi di meditate dilatazioni, micidiali intensità, estremi rigori; e tali struggenti tenerezze da rendere la sua vita una melodia indicibile, intrisa di nostalgia. Un facilement facilement di turbati e rubati chopiniani in cui il dolore dei giorni, mondato alla sprezzatura, si rastrema in una lama gelida di bellezza. Millantarne il respiro, che era in lei profezia di scrittura, arabescata e impalpabile: veliero dorato di arie e melodie, eppure precipite di subacquei, celati smeraldi.
“Infinitamente più delicata e tremenda è la presenza dell’immenso nel piccolo che non la dilatazione del piccolo nell’immenso”; è così che, nelle Sources de la Vivonne, Cristina registra l’affinarsi di una dismisura: l’immaginario proustiano della catacombale Entrata agli Inferi, della Cosa extraterrestre s’arresta in un piccolo lavatoio quadrato, “da cui montano delle bolle”. Ed è qualcosa che la riguarda, quest’immane che s’annida nel minuto: scempio celeste dell’attimo, belva regale avvolta d’avvenenza che cova il balzo.
S’assottiglia in potenza letale l’immenso, quando è costretto in cenno, in sussurro.
Cristina la fragile, di esilità perfetta. Gli occhi come alvei sterminati, nel pallore di un’estasi inversa, la sua ascesi segretissima. Nelle parole, invisibili filigrane d’incensi: arborescenze da tappeto orientale, pregne di millenni, venate di luce.
Non analizzare, ma percepire. Accogliere e attendere, dare dimora allo stupore. Lei faceva così.
Gli arcani, le apparizioni augurali; i misteri, i segni, i rimandi: l’eroe di fiaba che, col cuore spiccato dal petto, entra nell’impossibile. L’insensato che sposta le orbite celesti, solleva gli oceani, facendo eco di trascendenza.
Ma gl’infantili incantesimi di San Michele in Bosco, le trasognate devozioni e l’altissimo, eroico dipanarsi dei destini non trovano spazio nel quotidiano rosario di volgarità, dove un moderno insolente strazia scenari urbani assolati: il blocco cieco del mondo è nei cerei casermoni, nelle scialbe periferie où l’on a tout perdu.
È allora che il nudo oceano di un cuore sensibilissimo, franto di stagioni orfane e d’imperfette compagnie, si fa parola vibrante; in trine di sangue tesse il suo ardore d’assolutezza: come l’usignolo che, cantando, diviene un batuffolo di piume, pieno di febbre.
Nel segno della Visitazione (Lc 1, 39) è per Cristina l’amicizia femminile: perduta dapprima per tragiche vicende belliche l’amica Anna – con cui, per gioco, aveva pronunciato il suo irrevocabile, cristico e votivo nom de plume – la ritrova poi in alcune presenze (Mita, sopra tutte) con le quali s’instaura una consuetudine di mutua custodia nella parola. Nondimeno, Cristina ha pensieri premurosi, tutelari e dedicati per ogni anima amica. Eppure di Cristina molto si è detto dei rigori e delle aristocratiche severità, forse poco della tenerezza.
Imperdonabile per sovranità e levatura, incoronata da programmatico oblio, Cristina è con l’amore, il tremendo, che si solleva dal male che le avvilisce il respiro e le affila il viso, bagnandole gli occhi astrali di candide inermità e vertiginose misericordie.
Per altri sopite, le trame di fiabe e racconti simbolici s’impennano al suo sguardo in iridescenze compenetrate e significanti, dipanando i fili di vite in bilico tra corporeità e sopramondo: le conversioni del cuore che creano il varco, e i soprammercati di ricompense inaudite, festa in terra di ciò che già ha casa in cielo.
Per Cristina la letteratura non è esercizio, ma destino. Antro tacito e risonante, intriso di astensione e umiltà, che attende per accumulo il precipitare di annunci da dimensioni ulteriori. Vita disciplinata nell’intenzionale, praticato oblio di sé, e struggente sollecitudine per i molti compagni di via. Inesauribile pretesto di amore donato fino alla consunzione.
Mazzi di rose e notti insonni per l’amico infermo, l’anziana mendica accolta in casa, l’aiuto costante agli indigenti, ai carcerati, ai calunniati; le estenuanti campagne di supporto, gli epistolari febbrili e alati, in cui Cristina si dilapida a volo radente su ogni altrui sconforto. Grappoli di gattini randagi, ospitati in sovrannumero e sollevati oltre la spalla per venerarne l’immacolato affidarsi.
Opposti emisferi e cieli capovolti, ripide antinomie: un’evangelica sprezzatura accompagna le sue giornate. Profondamente donare, nell’incessante cammino di spoliazione da ogni umana opacità: perseguendo la sintesi che ricompone il fato, ardere nella suprema fiamma che si eleva dalla corporea, weiliana pesanteur, dal reticolo dell’io, per ascendere alle acuminate libertà dell’obbedienza. Inflessibile guardiana del proprio cuore, stilla i suoi doni adamantini da un rarefatto anonimato, stagliandosi su un fondale aureo di ascesi, come la Vergine di Sant’Alessio che tiene in quadro alle spalle del letto. Nell’incessante preghiera che fa dardo al cielo, pratica l’esicasmo del Pellegrino russo, e risponde alle chimere del tempo lineare rovesciandone ogni coordinata; come il Cristo che solleva il viso benevolo all’adultera, “tutto clemente ironia”, dopo aver scritto nella polvere (Gv 8,11) e consiglia, a chi pretende la tunica, di donare anche il mantello (Mt 6, 41).
Supremo dono sofferto, strenua testimonianza di bellezza è, in Cristina, la poesia. Vissuta con pudica soggezione e precaria frequenza, come fosse un’eucaristia cui avvicinarsi solo se acuiti in filiforme candore: se profondamente attenti all’indizio, visitati dal segno. La poesia è l’ignoto liquore dell’idea che si posa nel vaso d’oro della preesistente figura: annosa compagna del poeta per fascinazione, che trova infine il suo compimento. Nell’ora propizia, in cui un indicare, se pur obliquo, sarà dato del verso al Vero; vertice invocato che, di rimando, la pagina inonda e illumina. Gesto rituale, che dalla liturgia trae matrice e insegnamento, la poesia è “nostalgia servita da mani alate”, come quella del tessitore di tappeti, che “afferra nessi, armonizza figure” in orditi trafitti di soprannaturale chiarore. Sono le “immagini originarie” di Henry Corbin, “terre trasfigurate, terre in visione”5, ordinate secondo i “gradi di sottigliezza o densità” del mondo intermedio, immaginale: hortus conclusus di precisione attentiva che è come il piccolo tappeto islamico, suolo sacro di orazione, sollevato alla sorgente amorosa, segreta. La poesia è figlia della liturgia, canone di perfezione, verità che accade in adorabile bellezza, magnetismo di sensi e soprasensi chiamati all’armonia. Chiostro di mistero, divino che arde in presenza, trasfigurando i sensi corporei in sensi soprannaturali, e così facendo suprema occasione di metamorfosi.
Fiaba, poesia, liturgia: sono queste le compenetrate dimensioni, madrine di verità e bellezza su cui si chiude ad anello, giungendo a pieno compimento, un’esistenza dolorosamente fatata, che ha tentato di tessere l’inesprimibile con una grazia vicina alla santità. Distacco, eleganza, fascino della discrezione, senso di sobrietà addestrati all’inflessibile metronomo di un rigore efferato: a contenere l’indicibile tenerezza di un caldissimo, enorme cuore, che seppe essere limpido e vibrante come fiamma, fino a trasparire, rendendosi eterno.


  1. Il titolo Fuge, tace, quiesce deriva da una risposta che Dio diede a Sant’Arsenio esicasta, padre del deserto. Tale esortazione compare in Detti e fatti dei padri del deserto, che Cristina Campo curò, insieme a Piero Draghi, per l’editore Rusconi nel 1975, scrivendone una prefazione memorabile ↩︎
  2. Il saggio è, su carta, in: «Metaphorica», semestrale di poesia»: anno II – n. 4, luglio – dicembre 2023, Efesto edizioni, ISBN-13     978-8833815183 ↩︎
  3. Emmaus, in Poesie Sparse, ora in Cristina Campo, La Tigre Assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi, 1991 ↩︎
  4. Le luminose sillabe sonore definiscono il portamento pudico e casto del canto gregoriano, di cui Cristina era studiosa appassionata, nel libro di Marius Schneider, Il significato della musica (tradotto da Aldo Audisio, Agostino Sanfratello e Bernardo Trevisano, uno degli pseudonimi maschili di Cristina, con uno scritto di Elémire Zolla: originariamente per Rusconi, 1970; ora per SE, 2007) ↩︎
  5. Henry Corbin, Terre céleste et corps de résurrection, La barque du soleil, Parigi, 1961, poi divenuto: Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, traduzione di G. Bemporad, Adelphi, 1986; cfr. anche Cristina Campo, Gli imperdonabili (pp. 68-69), dove vengono riportati di questo volume concetti e termini precisi. Cristina conosceva bene alcuni saggi di Henry Corbin che erano stati tradotti in «Conoscenza religiosa», la rivista di Elémire Zolla con cui collaborava; tutta la mistica iraniana impregna il suo pensiero, sopra tutti il concetto dei «fili che corrono tra cielo e terra», come lei stessa diceva ↩︎