Discorsi 1849-1851
a cura di Francesca Serragnoli
Donzelli editore 2011, curato da Ettore Rocca
III
“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non ammassano nei granai”, (Mt 6, 26) liberi dalla preoccupazione del domani. “Osservate l’erba nel campo, che oggi è”
*
Fa’ questo e impara:
LA GIOIA.
Osserviamo dunque il giglio e l’uccello, questi gioiosi maestri. “I gioiosi maestri”, perché tu sai che la gioia si può comunicare; e perciò nessuno insegna meglio la gioia di chi è egli stesso gioioso. Chi insegna la gioia non deve far altro che essere egli stesso gioioso, ovvero essere la gioia. Per quanto si sforzi di comunicare gioia, se non è gioioso egli stesso l’insegnamento sarà imperfetto. Così nulla è più facile da insegnare della gioia: ahimè, abbiamo solo bisogno di essere sempre davvero gioiosi noi stessi
Siate sempre gioiosi
non cessate mai di pregare
in ogni cosa rendete grazie
perché questa è la volontà di Dio
(prima lettera ai Tessalonicesi 5:16)
Ma questo “ahimè” indica, ahimè, che non è poi così facile, cioè non è così facile essere sempre gioiosi in prima persona. Se lo si è, diventa facile insegnare la gioia: non c’è nulla di più certo.
Ma là fuori presso il giglio e l’uccello, là fuori dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è sempre gioia. E mai il giglio e l’uccello sono in imbarazzo come talvolta capita a un maestro umano, il cui insegnamento resta scritto sulla carta o giace nella sua biblioteca, in breve è altrove e non sta sempre con lui. No, là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre: essa è veramente nel giglio e nell’uccello. Che gioia, quando albeggia e l’uccello si sveglia presto per assaporare la gioia del giorno; che gioia, seppure accordata a un altro tono, quando fa sera e l’uccello si affretta, pieno di gioia, a tornare al suo nido; e che gioia nel lungo giorno d’estate! Che gioia quando l’uccello – che non solo canta durante il suo lavoro come un gioioso lavoratore, ma il cui lavoro essenziale è cantare – comincia con gioia il suo canto; che rinnovata gioia quando anche il suo vicino comincia, e così pure quello di fronte, e quando poi il coro si unisce al canto, che gioia; e quando infine c’è come un mare di suoni che fa risuonare bosco vallata, cielo e terra, un mare di suoni in cui chi ha intonato il canto volteggia in alto fuori di sé dalla gioia: che gioia, che gioia! E così tutta la vita dell’uccello; sempre e dappertutto trova qualcosa, o abbastanza, di cui gioire; non spreca un solo istante, riterrebbe sprecato ogni istante in cui non sia stato gioioso.
Che gioia quando la rugiada si posa e ristora il giglio che, rinfrescato, si dispone al riposo; che gioia quando il giglio dopo il bagno si asciuga con voluttà al primo raggio di sole; che gioia nel lungo giorno d’estate! Osservali bene; osserva il giglio, e osserva l’uccello; e guardali poi insieme! Che gioia, quando l’uccello si nasconde presso il giglio, dove ha il suo nido e dove sta così indicibilmente a suo agio, passando il tempo a giocare e scherzare con il giglio! Che gioia, quando in alto dal ramo, o più in alto, lassù dalla nuvola l’uccello felice tiene d’occhio il nido e il giglio, che sorride guardandolo lassù! Beata, felice esistenza, così ricca di gioia! Oppure la gioia è forse minore perché, se inteso in modo meschino, è poco quel che li rende gioiosi? No, questo modo meschino di intendere è senza dubbio un fraintendere, ahimè, un fraintendere quanto mai penoso e doloroso. Perché proprio il fatto che sia poco quel che li rende così gioiosi, è la prova che essi stessi sono la gioia e la gioia stessa. Ma è davvero così? Se qualcuno gioisse per nulla e tuttavia provasse in verità una gioia indicibile, si avrebbe la miglior prova possibile che egli stesso è la gioia e la gioia stessa, come lo sono il giglio e l’uccello, i gioiosi maestri di gioia, che sono la gioia stessa proprio perché sono incondizionatamente gioiosi. Colui infatti la cui gioia dipende da determinate condizioni non è la gioia stessa, la sua gioia è nelle condizioni, è condizionata da esse. Ma chi è la gioia stessa è incondizionatamente gioioso, come in modo inverso chi è incondizionatamente gioioso è la gioia stessa. Oh, per noi uomini le condizioni della gioia sono causa di molte fatiche e preoccupazioni, e tuttavia, anche se tutte le condizioni venissero soddisfatte, non diventeremmo comunque incondizionatamente gioiosi. Né potrebbe essere altrimenti – vero, profondi maestri di gioia? – anche con l’aiuto di tutte le condizioni è impossibile diventare altro o più che condizionatamente gioiosi: le condizioni e il condizionatamente si corrispondono. No, incondizionatamente gioioso diventa solo chi è la gioia stessa, e solo se si è incondizionatamente gioiosi si diventa la gioia stessa.
Tuttavia, non si potrebbe mostrare in due parole in che modo la gioia è contenuta nell’insegnamento del giglio e dell’uccello, oppure qual è il contenuto del loro insegnamento di gioia, cioè, non si potrebbe mostrare in due parole le determinazioni concettuali del loro insegnamento? Certo, lo si può fare facilmente, ché per quanto il giglio e l’uccello siano semplici, non per questo sono senza pensiero. Dunque lo si può fare facilmente; e non dimentichiamo che al riguardo si ha già una straordinaria scorciatoia: il giglio e l’uccello sono essi stessi quel che insegnano, esprimono essi stessi quel che insegnano come maestri. Quel che insegnano è l’originarietà acquisita, differente dalla originarietà prima e diretta che consiste nel fatto che il giglio e l’uccello possiedono quel che insegnano, nel senso più stretto, di prima mano. E l’originarietà acquisita nel giglio e nell’uccello è di nuovo la semplicità. Perché la semplicità di un insegnamento non dipende tanto dall’uso di un’espressione facile e quotidiana, oppure altisonante ed erudita, no, il semplice è che il maestro sia egli stesso ciò che insegna. E questo è il caso del giglio e dell’uccello. Ma il loro insegnamento di gioia, che di nuovo la loro vita esprime, è con grande brevità il seguente: c’è un oggi che è, sì, un’enfasi infinita cade su questo è. C’è un oggi, e non c’è nessuna, proprio nessuna preoccupazione per il domani, o per il giorno seguente. Non è leggerezza quella del giglio e dell’uccello, è invece la gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello.
Che cos’è la gioia, che cos’è essere gioiosi? È essere davvero presenti a se stessi. Ma l’essere davvero presenti a se stessi è questo “oggi”, è essere oggi, essere davvero oggi. Quanto più è vero che sei oggi, quanto più sei completamente presente a te stesso nell’essere oggi, tanto più il giorno dell’infelicità, il domani, non esiste per te. La gioia è il tempo presente con tutta l’enfasi su: il tempo presente. Per questo Dio è beato, lui che dice eternamente: oggi; lui che eternamente e infinitamente è presente a se stesso nell’essere oggi. E per questo il giglio e l’uccello sono la gioia, perché con il silenzio e l’incondizionata obbedienza sono fino in fondopresenti a loro stessi nell’essere oggi.
“Ma, tu dici, il giglio e l’uccello, per loro è facile”. Risposta: non aggiungere alcun “ma”.
Impara invece dal giglio e dall’uccello al punto da diventare completamente presente a te stesso nell’essere oggi, e così sarai anche tu la gioia. Ma, come detto, nessun ma; è cosa seria, devi imparare la gioia dal giglio e dall’uccello. Tanto meno devi sentirti importante, così da fare lo spiritoso (visto che il giglio e l’uccello sono semplici e forse per sentirti uomo) e dire, parlando di un singolo domani: il giglio e l’uccello, per loro è facile, loro che non hanno neppure il domani da cui essere tormentati, “ma l’uomo, che non solo ha la preoccupazione del domani, di quel che mangerà, ma anche del giorno di ieri, riguardo a quel che ha mangiato – e non ha pagato!” (n.d.r. Libera citazione da una lettera che il pastore F. L. B. Zeuthen inviò a Kierkegaard l’11 maggio 1848). No, nessun motto di spirito, che tanto disturba l’insegnamento. Ma impara, o quanto meno comincia a imparare dal giglio e dall’uccello. Infatti, certo nessuno potrebbe credere seriamente che ciò di cui gioiscono il giglio e l’uccello, e ciò che gli somiglia, non sia nulla di cui gioire!
Dunque, che sei venuto al mondo, che esisti, che “oggi” hai il necessario per esistere. Che sei venuto al mondo, che sei divenuto uomo. Che puoi vedere, pensa, puoi vedere; che puoi sentire i suoni, gli odori, i sapori; che puoi avere sentimenti. Che il sole splende per te – e per causa tua; che, quando è stanco, sorge la luna e le stelle si illuminano.
Che viene l’inverno, che tutta la natura si traveste giocando a diventare straniera – e per divertirti. Che viene la primavera, che l’uccello arriva in una schiera innumere – e per darti gioia; che la campagna germoglia, che la foresta cresce splendida e si dà in sposa – e per darti gioia. Che viene l’autunno, e l’uccello vola via, non per fare il prezioso, oh, no, ma perché non ti venga a noia; che la foresta custodisce il suo ornamento per la prossima volta, cioè per poterti dare gioia la prossima volta. E tutto questo sarebbe nulla di cui gioire! Oh, se potessi rimproverarti; ma per rispetto del giglio e dell’uccello non oso e, allora, anziché dire che questo è nulla di cui gioire, dirò invece: se questo non è motivo di gioia, non c’è nulla di cui gioire. Pensa, il giglio l’uccello sono la gioia, e tuttavia, anche da questo punto di vista, hanno molto meno di cui gioire rispetto a te, che in più puoi gioire del giglio e dell’uccello. Impara dunque dal giglio e impara dall’uccello che sono i maestri: esisti, sii oggi, e sii la gioia. Se non sai trovare gioia nel giglio e nell’uccello che sono la gioia stessa, se non sai trovare gioia in loro, così da sentirti disposto a imparare da loro, allora il tuo caso è come quando il maestro dice del bambino: “Non si tratta di mancanza di capacità, inoltre la cosa è così facile che non si può parlare di mancanza di capacità; deve essere qualcos’altro, forse solo una mancanza di inclinazione, da non giudicare subito con troppa severità trattandola come mancanza di volontà o perfino come insubordinazione”.
Così il giglio e l’uccello sono maestri di gioia. E tuttavia anche il giglio e l’uccello si portano dentro una pena, come tutta la natura si porta dentro una pena: non sospira forse ogni creatura per la caducità cui è sottoposta contro la propria volontà?
[la creazione] è stata sottomessa alla caducità
non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa
e nutre la speranza
di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione
per entrare nella libertà della gloria
dei figli di Dio
(lettera ai romani 8,20)
Tutto è sottoposto alla caducità! La stella, per quanto stia salda nel cielo, sì, proprio la più salda muterà il suo posto cadendo, e quella che mai ha mutato posizione, muterà una volta posizione, precipitando nell’abisso; e l’intero mondo con tutto quello che c’è in esso sarà cambiato, come si cambia un abito liso
nel passato tu hai creato la terra
e i cieli sono opera delle tue mani;
essi periranno, ma tu rimani;
tutti quanti si consumeranno come un vestito;
tu li cambierai come una veste e saranno cambiati.
Ma tu sei sempre lo stesso
e i tuoi anni non avranno mai fine.
(Salmi 102: 25-27)
preda della caducità! E il giglio, anche se sfugge al destino di essere gettato nel forno, dovrà però appassire, non senza aver prima sofferto questo e quello. E l’uccello, anche se gli è concesso di morire di vecchiaia, dovrà però prima o poi morire, separarsi da chi ama, non senza aver prima sofferto questo e quello. Oh, tutto è caducità, e tutto diventerà prima o poi quel che è, preda della caducità. Caducità, caducità, questo è il sospiro. Perché essere sottoposto alla caducità vuol dire essere quel che il sospiro significa: essere rinchiuso, legato, in prigione; e il contenuto del sospiro è: caducità, caducità!
Tuttavia il giglio e l’uccello sono incondizionatamente gioiosi. E qui puoi ben vedere quanto sia vero quel che dice il Vangelo: tu devi imparare la gioia dal giglio e dall’uccello. Né puoi esigere miglior maestro di chi, sebbene sopporti una pena così infinitamente fonda, è tuttavia incondizionatamente felice ed è la gioia stessa.
Ma come riescono il giglio e l’uccello a compiere quel che sembra quasi un miracolo: nella pena più profonda essere incondizionatamente gioiosi; quando c’è un domani tanto spaventoso, allora essere, vale a dire, essere incondizionatamente gioiosi oggi? Come ci riescono? Ci riescono in modo chiarissimo e semplicissimo – il giglio e l’uccello lo fanno sempre – mettono da parte questo domani, come se non ci fosse. C’è una parola dell’apostolo Paolo (n.d.r. corretto in Pietro nella seconda edizione) che il giglio e l’uccello hanno preso a cuore, e, semplici come sono, la prendono del tutto alla lettera.
Così anche voi, giovani
siate sottomessi agli anziani.
E tutti rivestitevi di umiltà gli uni verso gli altri,
perché Dio resiste ai superbi
ma dà grazia agli umili.
Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio
affinché egli vi innalzi a suo tempo;
gettando su di lui ogni vostra preoccupazione,
perché egli ha cura di voi.
(Pietro 5:5-7)
E proprio questo, il prenderla alla lettera, li aiuta. C’è una straordinaria potenza in questa parola, se viene presa del tutto alla lettera; se non viene presa alla lettera, ma proprio alla lettera, si rivela più o meno impotente, niente più che un insignificante modo di dire. È però necessaria incondizionata semplicità per prenderla incondizionatamente alla lettera. “Gettate TUTTE le vostre pene SU DIO”
Getta sul Signore il tuo affanno
ed egli ti darà sostegno,
mai permetterà che il giusto vacilli
(Salmi: 55,23)
Ecco, il giglio e l’uccello lo fanno incondizionatamente. Con l’aiuto dell’incondizionato silenzio e dell’incondizionata obbedienza – sì, come la più potente catapulta getta qualcosa lontano da sé, e con una passione pari a quella con cui si getta via ciò che più si aborre – gettano ogni loro pena lontano da sé. E – con una precisione pari a quella con cui fa centro la più precisa arma da fuoco, e con fede e sicurezza pari a quelle con cui solo il più esperto tiratore colpisce – le gettano SU DIO. In quello stesso attimo – e quell’attimo è fin dal primo istante, è oggi, è contemporaneo al primo istante della loro esistenza – in quell’attimo stesso sono incondizionatamente gioiosi. Prodigiosa destrezza! Poter afferrare tutte le proprie pene e in un sol colpo, così da poterle gettare con destrezza lontano da sé e colpire il bersaglio con tale precisione! Eppure il giglio e l’uccello lo fanno, per questo sono in quell’attimo stesso incondizionatamente gioiosi. E così bisogna fare, perché Dio l’onnipotente porta su di sé tutto il mondo e tutte le pene del mondo – comprese quelle del giglio e dell’uccello – con infinita leggerezza. Che gioia indescrivibile! La gioia per Dio l’onnipotente.
Impara dunque dal giglio e dall’uccello, impara questa destrezza dell’incondizionato. È davvero un prodigioso esercizio di destrezza; ma proprio per questo devi prestare ancor più attenzione al giglio e all’uccello. È un prodigioso esercizio di destrezza e, come “esercizio di destrezza della mansuetudine”, contiene una contraddizione, oppure è un esercizio di destrezza che scioglie una contraddizione. La parola “gettare” fa pensare all’uso della forza, come se si dovesse raccogliere tutte le proprie energie e con un enorme sforzo… “gettare” con forza la pena lontano da sé; e tuttavia è proprio la “forza” a non dover essere usata. Quel che deve essere usato, e incondizionatamente, è l’”arrendevolezza”; eppure si deve gettare la pena lontano da sé! E si deve gettare lontano da sé “ogni” pena; se non si getta via ogni pena, ne restano molte, alcune, poche, e non si diventa gioiosi, né tanto meno incondizionatamente gioiosi. E, se non si getta incondizionatamente su Dio ma altrove, non ci si libera incondizionatamente della pena, e quella in un modo o nell’altro torna, per lo più sotto forma di una pena ancora più grande e amara. Perché gettare via la pena, ma non su Dio, è “distrazione”. Ma, rispetto alle pene, la distrazione è un mezzo dubbio e ambivalente. Invece gettare ogni pena incondizionatamente su Dio è “raccoglimento”. E tuttavia – sì, è meraviglioso questo esercizio di destrezza della contraddizione! – è un raccoglimento con cui ti liberi incondizionatamente di ogni pena.
Impara dunque dal giglio e dall’uccello. Getta tutte le tue pene su Dio! Ma non devi gettar via la gioia, al contrario la devi tenere stretta con tutta la tua forza, con tutte le tue energie vitali. Se lo fai, è facile aspettarsi che manterrai sempre un po’ di gioia, perché, se getti via ogni pena, manterrai solo la gioia che hai. Ma basterà a stento. Fai dunque un passo ulteriore nell’imparare dal giglio e dall’uccello. Getta tutte le tue pene su Dio fino in fondo, incondizionatamente, come fanno il giglio e l’uccello: così diventerai incondizionatamente gioioso come il giglio e l’uccello. Questa è infatti la gioia incondizionata: adorare l’onnipotenza con cui Dio l’onnipotente porta facilmente tutte le tue pene come fosse nulla. E la gioia incondizionata è anche questo, il passo successivo (quel che l’apostolo aggiunge): adorando osare credere “che Dio si prende cura di te”. La gioia incondizionata è proprio la gioia per Dio, di cui e in cui puoi sempre incondizionatamente gioire. Se non diventi incondizionatamente gioioso nel rapporto con Dio, l’errore è incondizionatamente in te, nella tua incapacità di gettare tutte le tue pene su Dio, nella tua mancanza di volontà, nella tua presunzione, nella tua ostinazione, in breve l’errore è nel fatto che non sei come il giglio e l’uccello. C’è solo una pena riguardo alla quale il giglio e l’uccello non possono essere maestri, di cui perciò non parliamo qui: la pena del peccato. Per ogni altra pena vale che, se tu non diventi incondizionatamente gioioso, la colpa è tua, perché non vuoi imparare dal giglio e dall’uccello a diventare, con silenzio e obbedienza incondizionati, incondizionatamente gioioso per Dio.
Ancora una cosa. Forse tu dici con “il poeta”: “se si potesse costruire e abitare presso l’uccello, nascosti nella solitudine della foresta, dove l’uccello e la sua compagna formano una coppia, ma dove però non c’è società; se si potesse vivere con il giglio nella pace del campo, dove ogni giglio bada a se stesso e dove non c’è società, allora sarebbe facile gettare tutte le proprie pene su Dio ed essere o diventare incondizionatamente gioiosi. Perché “la società”, proprio la società è la sventura, l’uomo è l’unico essere che tormenta se stesso e gli altri con l’infelice illusione della società e della felicità della società, e questo quanto più la società, rovinando sé e l’uomo, si ingrandisce”. Tuttavia non devi parlare così; no, guarda la cosa più dappresso e confessa mortificato che, nonostante le pene, è proprio l’inesprimibile gioia dell’amore con cui l’uccello, lui e lei, sono una coppia; e che, nonostante le pene, è proprio la gioia contenta di sé nello stato di solitudine, gioia con la quale il giglio è solo: è proprio questa gioia a far si che la società non li disturbi, perché là da loro c’è senz’altro società. Guarda ancor più dappresso e confessa mortificato che è proprio l’incondizionato silenzio e l’incondizionata obbedienza con cui il giglio e l’uccello sono incondizionatamente gioiosi per Dio, è proprio questo che fa essere gioiosi, incondizionatamente gioiosi il giglio e l’uccello, tanto in solitudine quanto in società. Impara dunque dal giglio e dall’uccello.
E se tu potessi imparare a diventare completamente come il giglio e l’uccello, ahimè, e se io potessi impararlo, allora diverrebbe verità in me come in te anche quell’ultimo pregare nella “preghiera”, che (esempio di ogni vera preghiera che, gioiosa e sempre più gioiosa e incondizionatamente gioiosa, prega in verità se stessa) alla fine non ha più nulla per cui pregare, nulla da desiderare, ma incondizionatamente gioiosa termina nella glorificazione e nell’adorazione, quella preghiera che dice: “tuo è il regno e la potenza e la gloria” (Nella tradizione luterana il Padre nostro si chiude con le parole: “Perché tuo è il regno e la potenza e la gloria in eterno! Amen”).
Sì, suo è il regno; e perciò tu devi incondizionatamente tacere, per non far notare, disturbando, la tua presenza, ma per esprimere, con la solennità del silenzio incondizionato, che suo è il regno. E sua è la potenza; e perciò tu devi obbedire incondizionatamente e, incondizionatamente obbediente, devi accettare tutto, perché sua è la potenza. E sua è la gloria; e perciò in tutto ciò che fai, in tutto ciò che soffri, hai sempre ancora una cosa da fare incondizionatamente: rendergli gloria, perché sua è la gloria.
Oh, gioia incondizionata: suo è il regno e la potenza e la gloria, in eterno. “In eterno”, guarda questo giorno, il giorno dell’eternità, che non ha mai fine. Perciò non fare altro: mantieniti incondizionatamente saldo al fatto che suo è il regno e la potenza e la gloria, e ci sarà per te un “oggi” che non avrà mai fine, un oggi in cui puoi diventare eternamente presente a te stesso. Lascia che il cielo crolli, e le stelle mutino posizione nel rivolgimento del tutto, che l’uccello muoia e che il giglio appassisca: tu nella tua gioia, e la tua gioia nell’adorazione sopravviveranno oggi stesso a qualunque fine. Pensa a ciò che ti riguarda, se non come uomo, certo come cristiano: cristianamente perfino il pericolo della morte è per te così insignificante che viene detto “oggi stesso sarai in Paradiso” (Luca, 23,43), e dunque il passaggio dalla temporalità all’eternità – la massima distanza possibile – è così rapido, perfino se dovesse avvenire con la fine del tutto, che oggi stesso sarai in Paradiso, poiché cristianamente resti in Dio. Perché se resti in Dio, che tu viva o muoia, che nella vita le cose ti vadano bene o male; che tu muoia oggi o tra settant’anni, che trovi la tua morte in fondo al mare, dove più è profondo, o che tu esploda nell’aria: non uscirai al di fuori di Dio, resterai, presente a te stesso in Dio, e perciò nel giorno stesso della tua morte sarai in Paradiso. Il giglio e l’uccello vivono solo un giorno, un giorno molto corto per giunta, eppure sono la gioia, perché, come detto, sono davvero OGGI, sono presenti a se stessi in quest’“oggi”. E tu, cui è concesso il giorno più lungo: vivere oggi, e oggi stesso essere in Paradiso, non dovresti essere incondizionatamente gioioso? Tu che perfino dovresti, poiché potresti, superare di gran lunga l’uccello in gioia. E di questo diventi certo ogni volta che preghi in questo modo, e a questo ti avvicini, ogni volta che preghi interiormente con la preghiera della gioia.
Quando pregate, non siate come gli ipocriti
poiché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe
e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini.
Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno.
Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e
chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo
che è nel segreto
e il Padre tuo, che vede nel segreto
te ne darà la ricompensa.
Nel pregare non usate troppe parole come fanno i pagani
i quali pensano di essere esauditi per il gran numero delle loro parole
Non fate dunque come loro, poiché il Padre vostro sa
le cose di cui avete bisogno,
prima che gliele chiediate
(Matteo 6:5-8)