Francesca Serragnoli

Francesca Serragnoli scrive a Derek Walcott



Derek,

sono qui a leggere le tue poesie come aprissi un libro a metà della mia vita.
Senza splendore non si vive ed è estate e ho bisogno di ricevere il sole
c’è un arco una linea che flette andando dal destino alla terra
e dalla terra al destino come piccoli esodi chiusi in ogni pugno di versi
so che si chiama ritmo, respiro, andante
è quasi il movimento di un pendolo che si allarga
le cui virgole si gonfiano come vele
l’anima fa il suo giro

Fotografia di Pierre Verger


passeggia nel deserto, toccando pareti sacre di Qumran
tracciando la sua nascita e la sua morte
perché tutto senta questa vita e il suo dilagare squadernato
e il suo filo di pescato del giorno, moribondo e gemmato
scuotendo l’albero che sta al suo centro con una spaventosa semplicità
i dettagli si radunano come insetti attorno al pietoso albero della vita
si muove tutto in quell’arco che deve essere rifatto ogni volta
l’occhialino dell’orafo

Paul Gauguin, Da dove veniamo Chi siamo Dove andiamo, 1897


C’è una litania convulsa che spinge tutto verso la sua pace
come una marcia di soldati
non è dato di sapere se vadano o vengano
sono vivi
danzano tutti né accatastati né distanti, tutti si guardano reciprocamente
perché nella poesia tutto è reciproco, tutto è reciprocamente
ascoltato, sempre la stessa cosa, legami musaici, il flauto e il tappeto
la spina e la rosa galleggiano nello stesso vino
di che verso siete, fratelli?
Parole fresche come frammenti di un meteorite radunate
finalmente come attorno al fragore che le ha fatte ammattire
morire di nostalgia
hanno tutte firmato il compromesso di morire, di saperlo
non è la scia di un funerale, è la bambina piccina di Peguy
che gioca a nascondino fra le gonne nere

Fotografia di Pierre Verger (particolare)


l’avvocato del diavolo con paffuta armonia direbbe:
ma sempre le stesse cose, sempre il mondo, lo stesso
gli stessi oggetti, gli stessi sentimenti, lasciate perdere
ogni speranza voi che entrate, lasciate stare, è il mercatino
usato, posa quella vita e la parola destino è una cineseria
e Dio dà un calcio a un barattolo come Boniek
e dice fottatinne in mia volontà è tua pace, citi anche tu D.


e in la sua volontade è nostra pace:
ella è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria e che natura face

(Paradiso, III, 85-87)

Paul Gauguin, Perché vi adirate, (No te aha oe riri), 1896

e io mi sento di dire che tutta la letteratura, le dicerie
le chiacchiere sulle navi e dai lattai, nei gorghi quotidiani
fra le parole destino, mistero, pace, gioia, disperazione, grazia
in questa storia che ci sembra sempre la stessa
nella morsa dell’utile-inutile. Sempre il mare. Sempre il vento.
Ciò ha un andamento salmico. Prende la parola l’opera
che va al largo di ogni disperazione
ripetiamo insieme i nostri racconti epici
il pubblico omerico della disperazione
Elena in disparte, ha terminato di essere Elena.
e dimentico per anni di rileggere ciò che va ripetuto insieme

Fotografia di Pierre Verger (particolare)


dicevo, ora [le parole] si ritrovano a raccontare ognuna il loro esodo
la caduta, disfatta in una stanza chiusa
di un manicomio. Lo dico con le mie parole.
Ora stanno tutte attorno allo stesso fuoco come vedove ognuna dell’altra
e raccontano della prima volta nello spazio infinito
e poi la pietra che sono diventate, l’indurimento
la trave si sé stesse, come dare testate contro un muro
sia bene o male una prova di grazia estrema
cioè rompersi in mille cicale a volume zero

eroe di questi celebri versi è tutto ciò che incomincia da vicino
è quella marcia che ricomincia in un punto qualunque
è il mio corpo fermo come un unicorno attraversato dal fiato.
Una stanza dei sedici anni
angusto privilegio di sdraiarsi nella giungla di desideri spiazzanti
contati sempre e comunque sulle dita di una mano.


Come il povero Tom dava la sua ultima crosta agli uccelli tremanti
[…] scrivere sul dono della luce
di cose familiari prossime a tradursi in notizie


Derek Walcott


È la catena di montaggio devastata dalle prime incursioni barbare
nei destini ubriacati stesi su magnifici tappeti
in coppe di rubino del proprio stesso sangue
con il sorriso anemico delle prime morti per noia
le invasioni delle prime luci dell’alba
accatastate come legname nelle cantine umane.

La primitiva arsura delle labbra, la prima sete
ricongiunta al primo fiume (che banalità bere quando si ha sete)
il cinghiale in fuga con in bocca il serpente
quell’incrocio ancora fumante del fuoco settembrino, del primo settembre
del mondo, perché è sempre il primo a transguardare
è una questione di tempo? Sì
è lo scambio della borraccia fra Coppi e Bartali.

Fotografia di Pierre Verger


Dal diluvio all’acqua che bevi c’è sempre un verso di quarant’anni.
è la pozza dove si radunano gli animali per bere
la pozza che ancora vibra nelle loro corse di zoccoli
e furia immacolata
la giovinezza di quella arsura, il muscolo dell’Iliade.

Paul Gauguin, Fonte misteriosa, 1893 (particolare)


Io ho le ossa di cenere e l’anello al naso delle tribù
che battono i piedi sulla terra danzando come battendo la porta della giungla
ed è un rumore che fa del ritmo una tortura
non c’è ancora la parola forgiata nell’argilla colante
sotto l’eterno sole
che lascia il fango dimenarsi
come un’anguilla ancora viva o morta di vita.


E l’unica arte che rimane è la preparazione della grazia
[….] “Qui giace Derek Walcott. Un posto bello per morire”
.

O dove dici: […] Come il male.
Quando sembra marmoreo è solo un velo
.

Fotografia di Pierre Verger


Non so se è una parola orribile o una piatta delicatezza la parola miracolo
disgiunta da ogni cosa, lasciata sola a fumare davanti a un autogrill
abbandonata in una scatola da scarpe davanti a un reparto di neonatologia
con una solitudine insopportabile o con una maniglia sola da trascinare
o un frutto caramellato perché il pensiero stagnante ha le doglie
dalle 9 alle 12
e spende il miglior tempo in bagno.

Tra un pensiero e l’altro io mangio sempre un dattero.
Come una pastiglia, perché la terra sia seminata,
mischiata al frutto più dolce della terra

Paul Gauguin, Una passeggiata sul mare, 1902


con la stessa certezza che la tua ombra proviene dal sole?

È vero Derek le stelle non ondeggiano mai
disinvolte sfere adorate dai passeri
nei sogni smisurati dei loro voli

oh vedere il sogno di un passero
la paura in un pugno di penne appena nate
e dure a sufficienza per sganciarsi una ad una
nel frangersi contro correnti paurose o spari

in quel sogno di alberi alti
partecipare alla parabola di finte cadute
e quell’immenso dono di risalire.

[…] la beatitudine della corrente
contraddice la prosopopea della disperazione
con alcune scintillanti semplici cose, acqua, foglie, e aria,
che eccitano la dissoluzione pronta ad andare oltre la felicità.


Paul Gauguin, Arearea, Giocosità, 1892


Basterebbe una bolla d’acqua caduta per caso
fra le mani di un cinese
mentre cerco i gemelli d’oro delle tue parole rotonde
in un perlaceo dubbioso e radioso riflettere luce bianca
ogni parola ne genera un’altra come un frutto mangiato e conservato intatto

con pudore io odoro il legno delle tue barche
ogni pertugio è levigato da piedi nudi e io mi struscio contro gli eroi
contro i frutti, contro le mani callose di indigeni casuali.
Mi siedo insieme a tutto ciò che viene perdonato per troppa luce
sotto un mantello di sale, nella sedia di qualcuno che, distratto, è entrato nella capanna
e mi trova ancorata a un luogo che non è il mio,
come il bisbiglio di una richiesta di grazia,
un volo inaudito che sorvola le cime dei nostri punti cardinali
una perturbazione di cieli e cirri, come li chiami, e visi unti dalla rugiada,
che hanno passato la notte insieme
la stessa acqua ci copre,
la stessa puntuale ricucitura del vento
e poi dicono di non scriverne, di non abusarne,
come si potesse sollevare il mondo come un letto
e il vento darlo ai poveri, a chi non ha niente.

Fotografia di Pierre Verger


Dove fa giorno stai. E chi veglierà? Chi rimarrà sveglio per tutti?
Non abituarti mai, dici

[…] accanto all’incedere-galletto dell’uomo tutto lustrini che sfugge
lo specchio di sabbia con un “Sì, ma non sono pronto”.


[…] che quelli che hanno visto la Spagna nel forno d’agosto
Per sempre nell’intimo restano scorticati dal fuoco

(quanti versi di scatto selvatico, non mi stanno nelle mani
quando dici niente e di questo niente piangi di gratitudine).

Teste d’amianto indecise se spogliarsi nel fuoco o seccare
l’albeggiare nel promontorio arroccato di un segreto canestro
cucito di tela e sangue. I grigiastri
pendii decorati a matita, la gioia divorata da una belva timorata di Dio.

Che cos’è questo flagello che fa a morsi il drappo dell’altare,
sbranandone la sch
iuma come fosse il merletto del mare […]

Paul Gauguin, The poor fisherman, 1896 (particolare)


ora devo andare a buttare la pasta nell’acqua che bolle
nella conchiglia viva che mi sembra il mare,
il mio mare salato con un pugno di sale e d’azzurro
c’è che si squama lo sguardo inciso nel pesce uncinato,
come diresti tu,
e faccio del cielo una capanna appena tolta dalle sue reti,
divelta,
faccio di quelle fiaccole sperdute nella collina il mio granaio.

Come sospetto di vivere, sospetto di morire
nell’andirivieni delle fiaccole anch’esse divelte
dalla fiamma come due lingue di lago o di lucertola,
nel fragore sospinto appena dalla bassa marea,
da quel mare così basso da piangerne la profondità
e che, raccolto con le mani, mi bagno le costole

Paul Gauguin, Le jour de Dieu, 1894


La granitica corteccia di un terremoto andato in sorte
al tuo soleggiato turbamento. Il fastidioso
afrore delle stalle dove Sant’Antonio tiene le bestie sulla soglia di Dio,
lisciando i dorsi con antiche litanie.

L’epopea di un diluvio scardinato dal destino.
Scarrozzato dal destino in un dirupo, disturbato
dai gabbiani e dalle quaglie.

Il contraltare della siepe di Leopardi,
che cena al tavolo di legno marcio un brodo immobile.

Le onde sono il mio piede di porco.
Le parole si adagiano a raccogliere i fiori
sempre bianchi sempre neri, soffici,
franosi nel marcire,
innamorati fino alla morte per acqua


Paul Gauguin, Manao tupapau, Lo spirito dei morti veglia, 1892


Una gioventù bruciata in frasi scambiate per versi
o versi scambiati per droghe,
il bianco della rosa con il bianco della coca.
E si presentano come vergini oche guardinghe
dal becco limato per lo smalto.
Digiune di scorrere,
sepolte da discariche
di tramonti che ne vedono il vuoto
luogo di una latrina.

Seguono la pioggia e non significano altro […]

Benedetta congiunzione, benedetto ricongiungimento
nel muoversi delle libellule.
I tuoi versi deflagrano la disperazione in ogni direzione.

[…] Il padrone di casa uscì per una telefonata.
Provai una incommensurabile tristezza per le vele della nave,
per il silenzio stagnante delle cose, il muto passato che trasportano,


[…] Simile a una farfalla notturna la luna alata fa da spilla alla tenda
e il cuore si inginocchia alla luce del mare. Il suo compito? Adorare
quell’immenso, consunto, frangiato di schiuma drappo d’altare.


Derek Walcott


(mentre si divincola nel segreto,
copro per lei l’alba con il drappo nero di una suora)
con una velocità a fiori.
Versi che non lasciano nessuna bestia viva a guardia del suo cuore.
La galera improvvisata
di quelli che si accontentano di essere un pettegolezzo
o un sinuoso argomento come direbbe Eliot
a cavallo del tropico del cancro
di un favoloso bistrot del centro.
Ormeggiata a una virtù prepotente come le unghie
del brontosauro estinto in una elegante e ammobiliata sala d’aspetto
che fastidio quelle borse della spesa a Mont Saint-Michel
come i petali distinti in mucchi di denaro.


Gli amici sono una stagione imbrigliata nella frenesia dell’età,
stratagemmi infantili
inizia qualcosa sempre come un film giallo con spie e assassini,
cecchini e donne sciantose sedute a tavolini di caffè,
colme del reato di attraversare una piazza lentigginosa
di sole trivellato già dai colpi a venire,
accade l’arte come una scena di piazza
di ritrovati castelli accanto a mercenari
dal cuore di bimbo,
dove mancava solo l’amore
e il gondoliere stringe l’occhio al sibilo
funesto del rintocco del suo remo

Francesca Serragnoli, fotografia di Daniele Ferroni


Come il poeta afferri questa sinfonia,
dove un canale murato scorra sotto ogni distico invadente,
come l’arabescata lingua s’infili nella bocca
dei leoni di Venezia o tratteggi ogni canale
con la meticolosa attenzione di un condannato a morte,


come bestiale sia la conformazione di ogni passeggiata,
fra i cani molli dei dipinti e ogni tratta di volo
degli uccelli, dai più stupidi ai voli randagi,
(in fin dei conti) il come scoperchia ogni direzione
con il braccio che mescola polenta fumante
fumante è il canale, profumata la rosa.

Indigente come i martiri dei primi secoli,
un povero qualunque,
il vedere è caldo e croccante

Paul Gauguin, Figura femminile nuda con girasoli, 1889 (particolare)


una selva in penombra
gli occhi come vestiti di paillettes di abiti da sera
con le scalmane degli uccelli e il turbinio nascosto
solo nei suoi passi, perché lui è solo
e inciampa solo come se il suo occhio
fosse un ginocchio molle con la ics delle operazioni iniziate
da entrambi i lati e avessero il ritmo dei ferri di una Penelope.
In questi silenzi annuisce la farina gettata su un tagliere
e quel buco al centro leggerissimo e impreciso
nasconde un uovo

hanno fondato una nuova religione basata sull’orizzonte

gli epiteti epici ripetuti come araldi
di una conversione simile alla danza
di una ballerina senza posa
che sfiora ogni luogo come fosse per sempre
e per sempre torce il collo dietro di sé
in balia di un inseguimento, un esodo attorno
a un centro chiuso la domenica,
aperto nei giorni angolari di un triangolo scaleno.

Me casa es tu casa Bed & Breakfast o monastero non importa
antichissime occasioni di fiducia sul collare
ingemmato del levriero di Tiepolo,
quel cane inseguito fino alla porta di casa,
come il vecchio del film di Fellini,
dove sono? dove sei? Inseguirti è un capolavoro
di una scia quasi di profumo,
una lanterna, una sfida, tutto velocissimo,
senza soste se non nei voli perpetui
e di qualche pensiero alto come la nebbia.

Derek Walcott


La scorciatoia o misericordia
degli uccelli o dei quadri o della pennellata
in quel punto dove guardavi e non c’era nulla.

quel qualsiasi che fa il turno di notte
e di giorno e chiude solo la domenica
perché niente qui è un sacramento posticcio.

C’è una distanza che voglio percorrere a ritroso
perché la mia partenza è ovunque,
tutto è un punto di partenza, tutto risuona
di una sirena e catena che ritira l’ancora.
Ti seguo con un trolley in costume caraibico
e vorrei mettermi i fiori di Gauguin fra i capelli,

Paul Gauguin, Donne di Tahiti sulla spiaggia, 1891


come i più banali imitatori di chi è guardato a lungo

Dove non c’è fiducia non c’è tradimento.

Come non accorgersi di mancare di fiducia in tutti i malestri,
le malefatte, le giunture corrose dalla ruggine,
perché non ho più paura di tutte le parole,
come se fossero davvero da usare quando si fa qualcosa.
Il getto della cazzuola contro la parete,
il grande pilastro della chiesa di Santo Stefano,
fatto da un muratore sudato che ha messo i mattoni,
se non lo avesse fatto l’idea sarebbe crollata.
Con quelle parole hai fatto la tua comunione laica.

Tiepolo… Veronese… aiutatemi

Quel miserere di me che ha del dantesco
e dell’epica la corazza di una marcia ritmica
in distici senza posa e senza nemici.
Intontito dalla mancanza di nemici.

Le rondini svolazzano nell’immortalità

come tu hai preso del quadro di Tiepolo il cane,
io prendo le rondini.
Il tuo nemico ha fatto breccia alla fine,
come una sentinella che ti ha guardato da lontano.

Paul Gauguin, Rupe Rupe, Raccolta di frutta, 1899


[…] Le lacrime scorrono,
ma più antica delle lacrime è la paralisi
del dubbio
[…]

poiché l’uomo è una piccola isola che contiene
cisterne di strazio
[…]

Dici altrove

Che non ho mai visto se non nei panni della sua ombra

E sembra vero che tu non abbia mai visto,
perché Dio nessuno lo ha mai visto,
e vedere è il suo privilegio.
Non avere mai visto è così infinitamente vero.
Che sollievo. Non avere mai visto. Che privilegio
non sentirsi dei privilegiati e avere il dubbio
che la prima occhiata la getti qualcun altro.

[…] quel noli me tangere

Tutto ha scritto noli me tangere?
tutto hai sentito dirti noli me tangere
e sei passato con appena un segno a matita.

Il tuo libro sembra scritto a matita
perché sapevi di non poter arrivare là
e che scorrere non è solo del fiume
di filosofica famiglia,
ma è di sé, è in fin dei conti un esodo
che si impara stando fermi,
sempre lo stesso strano movimento dell’anima,
come la chiami anche tu, le cui giunture
non hanno proprio il nostro andamento.
Che banalità fumosa! È la nebbia che adoro
(quando non devo andare da nessuna parte).

un giorno all’alba sentii l’ordinario espandersi della percezione nel mio motel
nascerò cent’anni dopo ma tutti e due restiamo chini su quel foglio


E io mi chino sulle vostre teste chinate
per unirmi a un chinarsi all’infinito,
come lo spazio della poesia genera altro spazio,
ti porta una sedia, aggiunge un luogo.
È la mia seconda casa al mare, e che mare!

Francesca Serragnoli


Non voglio spegnere la luce.
Allora la lascio accesa.
Allora lascio accesa l’abat-jour dei gabbiani
e delle scaglie di mare, non c’è mai troppo
mare nelle poesie, dovrebbe essercene di più
e tu hai tenuto sempre l’oceano,
c’è oceano
dappertutto.

Quello forse è stato l’atteggiamento che ti ha
bagnato sempre i piedi e le mani di sale.

Un incedere invalido e invalidante
perché è di quella mancanza che bisogna vivere.
E inchinarsi sia per passare sia per guardare
ciò che riflette il mare

Paul Gauguin, Fatata te miti, In riva al mare, 1892


[…] La nostra grazia originaria
è ancora un inchinarsi fuori moda

nei teatri, nelle gallerie; una stirpe isolana
condannata ai provincialismi della passione

Le mie Muse passano, con la loro falcata decisa,
donne analfabete con le ceste sulla testa, sorreggono

un vaso terreno con dentro fonti di gioia
[…]

con barbe ricci-di-fumo hanno fondato una nuova religione
basata sull’orizzonte […]

perché l’acqua ha un tempo solo, che non scorre all’indietro


Fotografia di Pierre Verger


C’è sotto a questo incedere un rio salato
sepolto vivo, tumulato, murato
e sempre scorre tranquillo come il sangue.

[…] Alt: ma l’aroma
dei gigli di montagna […]
la loro devozione […]
[…] era costudita
nei nomi che conosceva,


grande avanzo di galera
un nome chiuso nella sua galera
di un attico di mille metri quadrati dal quale
si scorgono tutte le creature di Dio,
come si divincola invece arreso quel marmo splendido
custode erede di secoli di Michelangeli innamorati

[…] Il tuo cuore è afflitto
dal terrore […]
[…] prega che i tuoi occhi socchiusi

non ti tradiscano con il solito risultato
di una approssimazione vigorosa, priva di gioia
[…]

Si è perso qualcosa nelle mie foglie, la precisa allegria
del giallo che deborda nei contorni esultanti,

della gioia che si spegne nel dovere, nei cunei scuri
delle rocce tra il merletto delle secche, nella fragilità

di un filo che ha spezzato la sua àncora invisibile
di una tela la cui vela alla deriva lascia la rotta

per cupa rassegnazione, nel calvario di un rancore monotono
verso una superficie che prima sorride poi tradisce. Tuo è il tradimento.


Derek Walcott

Il tradimento e l’esultanza
tue sono le onde di questi distici
fumanti di schiuma. Tua l’esultanza
che fai con il cenno di una mano
che scrivendo è come se salutasse
dagli orfani oceani, dalla vedovanza dell’alba
che tu stesso hai sentito scorrere
dalla testa ai piedi. E se è un tradimento
che sia sempre di più il movimento che percorri dall’alto
al basso come un’onda instupidita dall’aria.

E io così voglio risvegliarmi,
con i capelli arruffati,
in mezzo alle onde calme,
senza sapere se quell’isola sia la Martinica o la Sicilia.
È una seconda casa. (E chissenefrega della retorica).

Francesca Serragnoli


*

Francesca Serragnoli (Bologna 1972) è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio (Bologna 2003, nuova ed. Raffaelli Ed. 2012), Il rubino del martedì (Raffaelli Ed. 2010), Aprile di là (LietoColle – collana Pordenonelegge, 2016), e La quasi notte (MC, Milano, 2020).
È stata tradotta in varie lingue, suoi testi sono apparsi in antologie estere; in volume in Argentina, Spagna e in Romania.