Luca Giordano, Annunciazione, New York, Metropolitan Museum of Art, 1672-1674


Al margine delle Elegie di Duino di Rainer Maria Rilke a cent’anni dal loro compimento (1922/2022)


L’osservazione degli spazi intergalattici ci racconta di una dismisura. Che smorza, o dovrebbe smorzare, l’istinto totalitario proprio del pensiero razionale, e di uno dei suoi figliocci più spiritualmente infestanti, lo scientismo. Chiunque faccia ricerca, fisica e metafisica, è bene che abbia chiara consapevolezza del fatto che non è né sarà mai possibile, per noi, colmare la lontananza dell’abisso del Divino – che tuttavia ci abita. Per chi fra noi terrestri sia malato di nostalgia celeste, l’Angelo è un segno credibile di ciò verso-dove ci stiamo muovendo, nel nostro viaggio di ritorno “per àspera ad astra” (e, forse, chissà, perfino oltre).

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L’Angelo delle Elegie di Duino è un’ipostasi dell’idea del limite. E quando dico “del limite” non intendo solo a parte hominis, poiché anche il sentire angelico conosce un limite, e un confine: il limite che gli è dato, appunto, dall’umano; quello del “dire le cose” e del linguaggio della mortalità, che all’Angelo resta ignoto.

Roberto Floreani, concentrico (solare II), 2004


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Nel novero degli Angeli c’è una gerarchia. D’altra parte, in ogni particola del cosmo c’è una gerarchia. A differenti livelli energetici, corrispondono differenti livelli di realtà.

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E chi afferma: “Gli angeli non esistono” perché semplicemente non li vede e non li sente, privo com’è di quella sottigliezza sensoriale necessaria per accostarsi con profitto alla realtà dell’invisibile, è molto più ignaro del bambino che si brucia l’indice e il pollice tentando di afferrare la fiamma della candela che svetta sopra la torta sul vassoio del seggiolone, il giorno del suo primo compleanno. Ma, insomma, chi fra noi che ci pensiamo adulti può presumere, in coscienza, che la realtà sia tutta percettibile, tangibile, “alla mano”?

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Noi ci tormentiamo perché dobbiamo ricordare. Ma l’Angelo no.

Giotto, Presentazione di Gesù al Tempio, Cappella degli Scrovegni, Padova (particolare)


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Spalancare una mano davanti all’Angelo, in un gesto che prima confondesse e quindi trasformasse l’invocazione e la richiesta di custodia in volontà di distanza sarebbe eroico. Noi spesso ci chiediamo cosa sia la nostra vita, che senso abbia e, dunque, a cosa serva, ma così facendo non rispondiamo, in fondo, che alla nostra ansia di utilità; e ci pieghiamo a quella miope, rassicurante voluttà mondana che ci vuole campioni di atletismo ed efficienza anche di fronte a noi stessi. Nel momento in cui riuscissimo a riconoscerci in quel gesto, e a praticarne da singoli e come specie le “conseguenze spirituali” in modo intelligente e solidale, la nostra umanità si intensificherebbe, e diventerebbe più umana.

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La decadenza della figura angelica nella sua originaria valenza biblica è oggi al culmine. Il cosiddetto “post-moderno” ha portato a compimento un processo di deiezione teologica, concettuale e iconografica che è la cartina di tornasole storica di uno smarrimento profondo. Così che, per noi, tornare ad avvicinarci senza pregiudizi da demitizzatori all’idea iperbolica dell’Angelo significa, nientedimeno, che resistere nell’intenzione di un compito di reintegrazione cosmica.

Roberto Floreani, Concentrico, 2002


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Nonostante i molti sensi che gli sono stati attribuiti nel corso della storia, a diverse latitudini e in contesti culturali e tradizionali diversissimi, c’è una parola che più di angelo sappia nominare l’esperienza di un essere non assoluto e tuttavia numinoso? Una parola che sappia accogliere in sé insieme l’allusione alla distanza e a ciò da cui ci si è distanziati, quel più remoto che pullula nel cosmo così come nell’anima del mondo, e che è unito alla totalità dei viventi attraverso legami invisibili? L’Angelo ci apre alla nostalgia di quello che già siamo; ci annuncia un progetto di umanizzazione ancora e sempre a venire; e ci spinge all’ascolto, in noi, di una silenziosa rivelazione ininterrotta.

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Nella nostra lingua, così come quasi ovunque in Occidente, la parola “angelo” riecheggia l’antica radice sanscrita Ag, andare. L’Angelo è, prima di tutto, uno che va, e che è mandato.


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Mandate a dire all’imperatore non è, forse, l’incipit e/o la formula cerimoniale di ogni preghiera pregata per interposta voce? A quanto mi si dice, nell’antica Persia l’aggaros era il messaggero a cavallo che aveva il compito di far giunge celermente le notizie al Re. Da questo nome derivò aggaria, il servizio degli aggari, cioè dei messi imperiali. E siccome questi messi potevano esigere tutto quello che occorreva loro in servizio del Re, con l’andare del tempo aggaria prese anche il senso di “costrizione a qualche cosa”. Interessante, mi sembra, la parentela etimologica fra la parola angelo e la parola angheria.

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Saremmo molto lontani dal vero se dicessimo che l’Angelo è un’irrappresentabile immagine di pensiero che sta per uno spazio di opposizione metafisica alla legge (e alla parte materiale della natura) del mondo?

Marcantonio Franceschini, L’Angelo custode, 1716 (particolare), Dulwich Picture Gallery


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Nell’auto-interpretazione contenuta nella lettera al suo traduttore polacco Witold von Hulewicz, Rilke dice che l’Angelo delle Elegie è quell’essere che garantisce di riconoscere nell’invisibile un grado superiore di realtà: la creatura in cui appare già perfetta la trasformazione del visibile nell’invisibile che noi andiamo compiendo. Martin Heidegger parafrasando il poeta preferisce precisare a modo suo, e scrive: nell’invisibile che noi ci sforziamo di attuare.

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L’Angelo delle Elegie di Duino è il deuteragonista di un dramma antropocosmico nel corso del quale, perduta perfino la traccia mnesica dell’eco del Verbo di Dio, l’uomo che rimugina non si accontenta del nonsenso dell’Essere, e continua con ostinazione a bussare alla porta di accesso a un livello “più profondo” della realtà. Nel miraggio, che è un miraggio perfettamente poetico, di penetrare lo spazio di risonanza di quella scena linguistica originaria in cui la lingua muta della natura viene tradotta nella lingua umana. Sì, l’Angelo delle Elegie di Duino, rinserrato nel suo incorruttibile silenzio, è necessario a Rilke per mettere in moto più una prassi linguistica che un atteggiamento religioso. Sacra, per Rilke, è la lingua, e non l’Angelo.

Roberto Floreani, Quel che resta al risveglio


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Non comunica altro che sé stesso, l’Angelo delle Elegie di Duino. Poiché non è più un messaggero di niente, se non del mysterium tremendum. E soprattutto perché il suo incontro con l’uomo non dipende da lui, ma dall’uomo. L’Angelo delle Elegie di Duino è il principe della sprezzatura: un qualcosa/qualcuno che un pensatore in vena di intuizioni potrebbe definire, forse, il noncurante fuoriclasse dell’aseità. Chiuso in sé quanto un geroglifico, può stagliarsi sul proscenio di una mente aperta al mistero del reale come un’oltre-umana figura di rispecchiamento di un’anima in cerca della propria libertà, bramosa di spirito.


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Lo “spazio interiore del mondo” – questo meraviglioso hapax legomenon rilkiano – è l’ambito dinamico, dentro di noi, dove il visibile può trasformarsi in invisibile. Il tempo del Weltinnenraum non è il mero tempo cronometrico, ma è pur sempre un tempo. Il tempo dell’attimo come kairos. Nel quale l’opera di metamorfosi della realtà si dà in una dimensione svelante, qualitativa: quella stessa dimensione in cui hanno luogo le appercezioni visionarie mille volte testimoniate, e rubricate, dalla fenomenologia dell’esperienza estatica. Cioè a dire, nella regione dello spazio del cuore che l’Angelo delle Elegie di Duino rappresenta. O meglio in cui vive.

Biagio Bellotti, Battesimo di Gesù, 1757- 1764, affresco, Basilica di San Giovanni Battista, Busto Arsizio


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All’uomo – a ogni uomo – è propria l’esperienza esistenziale del venir meno. Dice Rilke: noi esaliamo fino ad estinguerci. E al poeta, e all’artista, gli uomini che più degli altri uomini vivono d’immagini, è dato, per soprammercato, di “esalare fino ad estinguersi” nell’esilio dalle cose. Come sappiamo bene, c’è il peso della consapevolezza della nostra mortalità che ci grava sulle spalle, a tutti, nessuno escluso (eccetto certi pazzi, e i bimbi piccoli, e, forse, i morenti in agonia), e c’è il peso del cumulo di immagini infrante che schiaccia, invece, i più sensibili – come se le immagini, per questi, non fossero che una sorta di copia contraffatta della realtà, che si sottrarrebbe proprio manifestandosi. Per alcuni di noi, in effetti, noi non viviamo nella realtà, ma nel fantasma della realtà. Gli Angeli delle Elegie, impassibili, nel loro eterno fluire turbinoso non conoscono quei pesi. Non hanno destino, loro, a differenza di noi. Se non quello, sempre uguale, di un perpetuo ritorno a sé stessi.

Roberto Floreani, La scrittura del dio, 2003


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Dalla specola della sua soprannaturale economia, la visione dell’Angelo può penetrare le variazioni del grado di percezione metafisica nel buio della nostra mente “umana troppo umana”? E può capire qualcosa delle strategie psicologiche che noi mortali architettiamo per inseguire il barlume, se non altro, di una felicità?

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Il tema che qui ci interessa non è la natura dell’Angelo delle Elegie di Duino, ma il rapporto tra l’Angelo delle Elegie di Duino e la nostra natura terrena, che esiste qui e ora. Di questo rapporto parla già un passo della prima Elegia:

Si dice che gli angeli spesso non sappiano
se vanno fra i vivi o fra i morti. L’eterna corrente
trascina con sé per i due regni le ere


Caravaggio, Estasi di San Francesco (particolare), 1594-1595, Wadsworth Atheneum, Hartford, Connecticut



Gli Angeli delle Elegie di Duino abitano la “grande unità” che allaccia e stringe in uno i vivi e i morti, l’al di qua e l’Aldilà. In questo senso, si può dire che si muovono in un non-dove, in una totalità così sterminata (s-terminata) da corrispondere, dal nostro miope punto di vista, a un’utopia. Assorto in tale spazio più vasto d’esistenza, è del tutto normale, per così dire, che l’Angelo non si occupi della differenza fra gli ancora-vivi e i già-trapassati. Una differenza che può darsi benissimo, invece, che non sia affatto essenziale in prospettiva intergalattica…

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È difficile concepire una figura più inservibile dell’Angelo delle Elegie di Duino per farle assolvere il tradizionale compito di mediazione fra cielo e terra. Il “micidiale uccello dell’anima” immaginato da Rilke ci interroga a partire da una posterità che direi fossile rispetto alla concezione biblica del nunzio celeste, e alle sue tante, più o meno zuccherose deformazioni in letteratura e nelle arti figurative. In effetti, l’Angelo è ormai uno specchio che non rimanda nessuna immagine. È il muto ambasciatore sfigurato (s-figurato) di un’alterità irriducibile. Letteralmente, è uno scandalo oltre-umano. Sbaglia, e non poco, Heidegger, in Perché i poeti?, quando lo definisce «metafisicamente il medesimo della figura di Zarathustra in Nietzsche». Piuttosto, allora, per rimanere a Nietzsche, a me l’Angelo rilkiano sembra assomigliare di più alla figura del Superuomo (o Oltre-uomo che tradur si voglia: dell’Übermensch, insomma), perché “dà segno” non già dell’aldilà, ma piuttosto dell’oltre, della compiutezza nell’invisibile che ci sforziamo di attuare.

Roberto Floreani, Concentrico, I colori dell’alba


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Grandezza del poeta che viaggia, da solo verso il Solo, senza più nessuna guida, e porta in mente il suo antipodo eterno come un paradossale strumento di auto-riconoscimento, poiché soltanto a partire dal non licet susseguente alla percezione della sua essenza soverchiante, non smetterà di chiedere (anche per noi) chi è e dove sta andando. L’angelico di Rilke è il cosmo “in assenza” che rimane, sulla terra, una volta che è stata gettata via la corda che legava, nel gesto originario della Genesi, uomo e Dio. Significa qualcosa che ha a che fare con l’ardua, problematicissima autonomia dell’umano. Nel pensiero dell’Angelo delle Elegie di Duino, noi terrestri possiamo al massimo tentare di indovinare per speculum in aenigmate il libero dispiegarsi di un’autonomia implacabile, insensibile alla carne e al sangue, e anche a sé stessa. E forse, se abbiamo robuste antenne metafisiche, possiamo arrivare a intuire la possibile verità che sta nell’idea di una super-potenza, di una monade autosussistente e vorticante nell’alto dei cieli – ben al di là del nostro cosmo sublunare – nell’oscuro sovrumano dove la vita, nel flusso sempiterno della sua vicissitudine, non differisce dalla morte, ma la contiene e trascende.

Massimo Morasso

Massimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Laureatosi presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Genova, con una tesi su Rilke traduttore di Michelangelo, è poeta, critico, saggista, traduttore, organizzatore di eventi e convegni in collaborazione con alcuni dei principali centri culturali della sua città (Centre Galliera, Goethe Institut, Fondazione Mario Novaro, Centro Ricerche Scienze Umane, Festival Internazionale di Poesia); è presente nelle maggiori antologie nazionali di poesia, ha pubblicato, tra gli altri, con Marietti, Raffaelli, Jaca Book, Passigli, Moretti & Vitali. Nel 2001 ha scritto la Carta per la Terra e per l’Uomo, un manifesto di etica ambientale sottoscritto da vari premi Nobel per la Letteratura e premi Pulitzer per la Poesia. I suoi lavori critici e creativi sono stati pubblicati su numerose antologie e riviste, quali, fra le altre: Humanitas, Micromega, Atelier e Poesia. In poesia ha pubblicato La leggenda della primavera (in tre diverse plaquettes uscite per L’Obliquo: Nel ritmo del ritorno, 1997; Distacco, 2000; Le storie dell’aria, 2000), Viatico (Raffaelli, 2010) e La caccia spirituale (Jaca Book, 2012), trittico che compone il ciclo polistilistico de Il portavoce (1995-2010). Per alcuni anni ha scritto nel segno unico dell’attrice Vivien Leigh, dando alle stampe Le poesie di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo, (Marietti, 2005) e La vita intensa. I racconti di Vivien Leigh (Le Mani, 2009). Traduttore dal tedesco (Meister, Rilke, Goll) e dall’inglese (Yeats), si è dedicato anche alla critica letteraria (La furia per la parola nella poesia tedesca degli ultimi due secoli, puntoacapo, 2009, e In bianca maglia d’ortiche. Per un ritratto di Cristina Campo, Marietti, 2010) e d’arte (Essere trasfigurato, Qiqajon, 2012). Nel 2014 pubblica la raccolta di saggi narrativi Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014). Nel 2017, con la raccolta poetica L’opera in rosso pubblicata da Passigli, ottiene i Premi Gozzano e Prata. È autore del manifesto La via anagogica per una nuova critica anagogica della poesia che è stato pubblicato sul n. 2 della rivista “AV”. È direttore editoriale delle Edizioni Contatti. Tra i riconoscimenti che ha ottenuto, il premio Catullo dell’Accademia Mondiale della Poesia dell’UNESCO, conferitogli nel 2018. Tra le innumerevoli traduzioni, di recente uscita William Butler Yeats, Drammi cristici, per Marco Saya, Milano 2022