La Vita Felice 2024
collana di Poesia italiana contemporanea, diretta da Diana Battaggia
Prefazione di Annelisa Alleva


Spettrale e provvisoria, mendace appare la materia a chi ne interroghi l’essenza profonda. Questo l’assunto che, audacemente, Marco Colletti elegge a basso tematico del suo lavoro poetico La materia non esiste (La Vita Felice 2024, prefazione di Annelisa Alleva).
Il molteplice, serrato nel suo mutismo, allestisce la pantomima frontale: ma è un sipario policromatico che cela, tra le particole, lo spaventoso vuoto del diniego: quella matrice d’illusorietà che insinua il dubbio del nulla eterno: baratro di annuncio inaffidabile, in cui ogni elemento è privo di vera essenza e intimo significato, di tenace intenzione orientata in destino.
Piuttosto è un’afflitta pluralità, sincronica e sfinente, a inscenare il teatro del reale, rivelando continue smagliature: indizi di assenza in spirito e senso, inciampi di carenza, omissione, vacuità.
Il flusso porta avanti sé stesso, e le nostre sonnamboliche istanze, da un luogo collaterale, a noi concomitante, nelle turbate scissioni che rabbuiano l’umana cosa. Perché, se la compattezza ontologica di ciò che si distende nello spazio vacilla, così anche il tempo ha un tragitto apparente, e la sua innegabilità, esterna alle categorie del pensiero, frana al cospetto dell’ “affilato supplizio”del ricordo, che reca continua adiacenza: acre, ustoria: dei passati, perduti amori.
È un veliero la pace, un sospeso miraggio: iridescente di elementi onirici millenari passa accanto, in una ribadita zona parallela, che non pervade né svincola le “braccia tese e crocifisse contro il cielo” in cui l’umanità, schiera di “soli e affollati”, si appuntisce in supplica vana, cristallizzandosi in dolenti individualità.
È l’unità in spirito che manca, quando “tutto parlava lo stesso suono”, cui l’umana tracotanza ha risposto elevando torri d’insolente egocentrismo, in cui dimorano dispersione e frammentazione, dove finanche la singola creatura è aliena alla propria identità: la molteplicità sensoriale del nostro corpo è un abbaglio che ci distoglie dalla coesione della persona in sé stessa: “l’unica grazia che ci tiene in vita è il respiro”, solo un’intima unità, potente e coesa nel soffio che anima come creature, permette di guardare la bellezza, questo roseto di odoroso dolore, dallo sguardo artico ed eterno: accoglierne il dorato buio, senza esserne trafitti e perduti.
Un senso di obnubilamento sensoriale, un ovattato ripiegarsi di ogni secolare percezione avvolge chi, dalle lande del reale, alza il capo alle sfere celesti, facendo esercizio di cautela verso l’egemonia di tutto ciò che è corporeo e urgentemente manifesto.
Inginocchiati negli interstizi della materia, gli umili vedono sollevarsi nel vento le loro speranze, sui manti color rubino di santi immacolati: sono i varchi verso altre dimensioni di esistenza, dove lo Spirito capovolge gli elementi del gioco delle forze, portando ogni muta sofferenza a bianchi troni soffiati di nubi, incoronandola nella “quieta, indomabile poesia”.
La bellezza depone il suo greto sublime accanto alla vita, divelle il poeta dal concreto presente, lo addestra alla morte dell’accorgersi: un’estraneità al mondo a tratti luttuosa, per proiezione di oscurità, eppure illesa nell’incanto: notte attraversata morendo, tenuti per mano dall’amore.
Siamo mente, cuore, senso: le tre sezioni della silloge volutamente non chiudono il cerchio dei punti cardinali della comprensione del reale: questo anfiteatro, soffiato alle spalle da ciò che, ignoto, non abbandona, ma accudisce in essenza, dando sentore di sé: “A un passo dal nulla, ma ancora / immagine incerta, mi ancoro figura / vibrante di un altrove, che può essere / ovunque e chiunque di qualcosa. / La accolgo tra le mani questa apparenza / di vita, che scivola come sabbia dell’ultima / clessidra. Allora mi vedo e dentro me / tutto il mondo mi assale, verso un mosaico / alato che adagio prende il volo”. Verso un avvenire non temporale, ma esistenziale, di rinnovata presenza piena, genesi intentiva che infine coglie, nelle smagliature della materia, la dimora predisposta della luce.

*


Da La materia non esiste, La Vita Felice 2024

Oggi vorrei la pace e mi è passata
accanto, veloce nel suo veliero
dai pinnacoli fronduti come una banda
di pirati scapigliati, teschi, tatuaggi
di sirene danzanti e bende
variopinte. Una corsa leggera
che non ha mai toccato terra,
questa terra. È ormai lontana e vicina,
viva immagine delle mie briciole
di speranza. Sì quelle del pane,
dei batuffoli di manna tra le onde
in un mare che si apre sotto i piedi
e che ingoia faraoni, cocchi cesellati,
archi infuocati e frecce, frecce
di luci buie. Del sale di questo mare,
che il veliero non tocca, rigonfio è
l’amaro del pensiero e sospeso
arresta il suo cammino. È volata
come un’ode, un’allodola viandante
tra i bagliori dei gesti, delle braccia
tese e crocifisse contro il cielo.
All’imbrunire rimango, vuoto
e pieno: è la sabbia colorata
del rosso del sole, è quel granello
che muta la forma degli altri intorno
ai miei piedi, Come noi che mutiamo
e rimaniamo, soli e affollati piccole
scaglie pietrificate di dolore.

Wassily Kandinsky, Composizione, 1930


*

Mentre attendo che la vita arrivi,
mi libro in visioni dal folgorante
conforto: le calde nuvole che
avvolgono epifanie di santi
immacolati, il rubino dei manti
che schioccano al vento
le speranze degli/umili.
inginocchiati negli interstizi
del reale, Sole e colombe.
i raggi disegnati dalle loro ali,
il rapido flutto del pulviscolo
che gioca con l’ombra e tutto sfoca,
mi appaiono come giganti
di salvezza al grido muto,
alla sofferenza che non ha
più parola, se non questa
quieta indomabile poesia.

Wassily Kandinsky, Empor, 1929


*

Li spingo questi muri con le mani
giunte e prego per un giaciglio
nel varco di una luce. Mai mi sarà
concesso, ma continuo a respirare
il sospiro della vita mai trovata.
Forse in quel flebile soffio
che sommuove le mie narici, intravedo
opaco l’alito che è la speranza
Di quei sogni prima di sognarli,
che abbattono pareti e volano
tra i tetti scoperchiati dai gabbiani.
Tutto si divelle e dal tetro nel mare
esplode, alla furia delle onde,
alle corrugate scaglie che agguantano
flotte al mio pensiero. Giovane
si fa un’alba antica e trasfiguro
lieve sul ciglio disamato dell’esistenza.

Wassily Kandinsky, Yellow Red Blue, 1925


*

Piccole fiaccole, platani di luna piena,
sorridevano sul mio volto, argento
vivo nella foresta. Sedevano sui rami
aghi incantati, tra flauti di luce
che sfibravano il cielo. Trascoloranti.
sono apparsi dentro i miei pensieri
alberi di pace e bianche comete solari.
Come onde d’amore respiravano basso,
piano, dentro il nostro cuore.

Wassily Kandinsky, Fragile, 1931


*

Non si può appartenere alla leggerezza.
noi che la gravità tutto sostiene
e la mente stanca affossa nella terra.
Tutto è il peso che ci circonda, e
l’immaginazione si fa rade pietre
colorate. Respiro, espiro e quel vocio
polmonare, che si affianca alle maree,
cade a ogni istante nella bianca fauce
del mondo. A quel centro del cosmo
che tutto tiene, quell’altrove che tutto
attrae. Lì, nell’impensabile, una farfalla
alata, lenta un battito, si irradia all’azimut
dell’universo e scoscesi pesiamo
di grammo in grammo in meno verso
l’eterea iridescenza del nulla nel pensiero.

Wassily Kandinsky, Cerchi in un cerchio, 1923


*

Ho costruito questa gabbia dorata
di parole perché tutti possiate
vederle, prima di ascoltarle. Voci
che hanno occhi e guardano occhi
inaspettati, nella eco del silenzio.
che sinistra gorgheggia di visioni
della vita che ha dentro tante vite
e poi la morte. Le tante morti
che ci portiamo, i visi infranti,
i gesti, le ultime carezze e tutto
quello che nessuno ha detto.
Molteplici proseguiamo in silenti
condivisioni, mai accolte nella rada
della consapevolezza, laddove
le barche non si toccano mai,
eppur galleggiano sullo stesso mare
Sotto, tra i coralli dentati e le rocce
smussate, un crepuscolo, che è pari
all’alba, arde gelato nell’intermittenza
dell’onda universale.


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Marco Colletti vive e lavora a Roma. Laureatosi in Lettere all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (con la tesi L’immaginario affettivo nelle Familiares del Petrarca, Relatore Prof. A. Asor Rosa), si occupa da sempre di poesia, critica letteraria, con approccio ermeneutico-antropologico, e di arte contemporanea in qualità di curatore e artista digitale. Le sue opere digitali sono poesie visive e le sue poesie visioni. Organizza eventi e convegni letterari ed è redattore della rivista «Formafluens International Literary Magazine». Suoi contributi critici sono presenti anche nelle riviste «Laboratori Poesia» e «Il Mangiaparole». È art director e illustratore per aziende e case editrici internazionali nel settore dell’illustrazione per l’infanzia.