L’acqua guizza nella bottiglia,
nei bicchieri da viaggio rovesciati
sotto questo manto di cielo sporco
che assembla i vagoni del treno,
le poltroncine dove rimangono
le borse con la chiusura a zip
per le unghie laccate delle signore.
Ogni coscienza è un destino,
una distrazione e un dolore
di vite senza fuoco.
È questa la stagione sui valichi
sovrastata da ogni uliveto umbro,
da un grumo di scarpate insecchite.
Ma lei si alza e non smette di salvare gli occhi
nei fianchi arrotondati
all’altezza del taglio della camicia,
nel movimento che oscura il sacerdote.
Non offenderti mai amore,
non smettere di pregare per te
quando la notte ti sfiora le guance


Elin Danielson-Gambogi, Autoportrait, 1899



*

L’aria illividita dalla pioggia
ti trascina nel respiro dei pensieri
imbevuti uno ad uno
dal sorso del primo caffè.
La primavera è ancora lontana
te ne accorgi dai cappucci dei giovani
che entrano nei mesi invernali.
Ma con il sole seppellirai questa tristezza vana
e il tuo angelo con le ali
si poserà sulla spalla,
ti guarderà come un ospite silenzioso
e si confiderà con un sussurro
nell’orbita dell’età e del dolore

*

L’ansia è il sintomo dell’amore
e non della resa,
dei predestinati nel segno dello zodiaco,
della strada che ci conduce al mare
a respirare la salsedine e l’odore delle navi
che salpano verso l’Oriente.
Ogni giorno apre una ferita nell’uomo
come ogni abbraccio ricuce i tessuti dell’anima
invocati nel cielo del conforto.
C’è sempre un incrocio per il bene comune,
un gesto d’attenzione che ripaga
dandosi un bacio
per divorare un irrevocabile dispiacere


Elin Danielson-Gambogi, Flowers in the Meadow



*

Sfiorano il ventre
la voce e il palmo dell’uomo
umile come un novizio
che si inginocchia davanti all’altare.
Tiene le mani giunte
da un fianco all’altro,
sente il respiro divino
di tutte le madri
intenerite nel miele
dell’amore grato,
unite da una parola
che sa sempre dove andare


Elin Danielson-Gambogi, To bed, 1897



*

Spegni la luce, andiamo
nella stanza da letto dove fa più caldo
o in cucina, dove si schiudono i sorrisi
dei primi giorni di aprile.
Quante volte si muore specie di notte
quando si cerca una mano tra le ombre,
nella culla di un sogno finito male
e nel fischiettio del vicino insonne
con la memoria lunga dei contadini
sconfinati nelle albe aranciate.
Quante volte si sopravvive ad ogni morte,
ad ogni vapore mellifluo
se il cuore si stringe
per chi non c’è più da decenni
incoronato con il santo di una chiesa,
introvabile nelle lunette
anche dopo la messa della domenica

*

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo, 2008), Hotel della notte (Aragno, Torino, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019). È presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, Siena, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia, 2004), Tra due secoli (Neftasia, Pesaro, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, Rimini, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto BevilacquaMaterna parola (Il Rio, Mantova, 2020). Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva”. Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”.
Il suo sito personale è www.alessandromosce.com