a cura di Maura Baldini

Il Convivio Editore 2021


Tutto inizia con la caduta da cui origina il mondo, dunque l’uomo: dai cieli edenici alla corruzione terrestre, o, se si preferisce, dall’esplosione della materia al precipitare della temperatura che ha permesso la formazione delle prime particelle; e ancora dalla fluttuazione nell’utero alla capriola verso la terraferma, per capriccio di gravità, verso futuri gravami d’anima.
Ed è proprio con la caduta che comincia Tu, ira (Nazim Comunale, Il Convivio Editore 2021), il cui incipit annuncia all’istante il precipitare della vita verso il néant, verso lo spazio bianco del nulla, verso la resa, poiché tutto ciò che è ha cucito in sé un destino di sparizione, nei meandri tossici e macilenti di questo tempo, se non, addirittura, “nell’anonimato cosmico”. E, per una dinamica di proporzionalità inversa, in un mondo sempre più esangue, in cui “Dio sbatte le palpebre una volta ogni secolo”, in questa tessitura universale delabrée, il precipitare verso la sparizione subisce un’accelerazione degna della più sofisticata delle tecnologie: mentre lo spirito langue, e con lui un Dio sconfitto, mentre la morte ci attende annoiata, e noi, orfani, aspettiamo una pioggia “che si annuncia, si annuncia / e non arriva mai”, la nostra discesa verso l’impero del nulla è invece rapidissima, come il divampare dell’ira, protagonista smagliante del titolo della raccolta, che nei testi, tuttavia, si stempera in rabbia. Ma si tratta pur sempre di una rabbia che “non spedisce lettere”, certificando così l’irrimediabile solitudine del poeta (“vaghiamo nella città vuota, nel silenzio di un ossario. / Cresciamo un canto dentro: non sappiamo a chi intonarlo”), malgrado l’indefettibile fratellanza con la parola. D’altronde, la parola stessa, in quanto Essente (nella connotazione terminologica severiniana), è anch’essa destinata all’inanità, alla sparizione, all’ammutolimento, non soltanto del poeta, ma della Poesia stessa. Per questo l’Io lirico, preda dello sgomento, supplica il mondo di “non scrivere altri nomi”, poiché la luce del guasto di questa esistenza che vortica attorno voragini, salite e ricordi sfocati, questa luce non lascia scampo, nemmeno alla parola.
Eppure, ci torna alla mente Maurice Blanchot, il quale, ne L’écriture du désastre, affermava che “Quando tutto è detto, ciò che resta da dire è [n.d.r. proprio] il disastro”, quel disastro che è “un niente di esistenza e di presenza”, la possibilità di distruzione consustanziale al linguaggio; certo, perché quando il linguaggio nomina una cosa, afferma al contempo che questa può essere sottratta a sé stessa. In altri termini, benché avvinta ai propri limiti estremi, la parola conchiude e coltiva la speranza di dire persino il néant.
Ed è quello che fa l’autore in questa raccolta, dimostrando che, finanche in questo secolo orfano di grandi spiriti, di miti – di cui rimane traccia smunta, antitesi della mitopoiesi –, in questo secolo di vacuità, di malattia, di contraddizioni, di faziose e inutili dicotomie, anche quando le parole capitano per sbaglio, quando ogni discorso pare essere “un naufragio in miniatura”, la Poesia svicola dal suo assassino, resiste, sopravvive; anche se il poeta stesso sembra volerla zittire, anche se egli lotta per tacere, per abituarsi a sparire. Ma in fondo, non è proprio questa la vera Poesia?
D’altronde, il dire di Comunale è senza dubbio un canto, un canto che nega sé stesso, certo, eppure non può sempre sfuggire alle maglie di una struttura ritmica chiaramente avvertibile, grazie al sapiente uso di figure retoriche di senso e suono. Persino il variare della lunghezza dei componimenti pare riflettere il messaggio globale della raccolta: verso la fine, infatti, dinanzi all’impossibilità sempre più contingente del dire, il versificare si accorcia, si assottiglia – poiché persino Dio si è fatto “esile / quanto il dito di un bimbo” – ma di sicuro non si estingue, come l’eterna fiamma della Poesia.
Sempre Blanchot affermava che si scrive col rischio di perdere sé stessi. Ci si perde, in effetti, nella febbre del vuoto, si è tentati di rinunciare, consapevoli della retorica che oggi, in maniera particolare, è divenuta la trita e vizza consolazione di ogni male. E questo smarrimento è nitidamente percepibile nei versi di Comunale. Il vuoto vortica, è lisergico: così il registro delle liriche, in cui assidua è la reiterazione di lemmi ed espressioni evocative (“religione”, “danno”, “anonimato cosmico”, “brume di matita”, “naufragio in miniatura” etc.) che travolgono il lettore in una nebbia alchemica. È lì che si annida il disastro di cui dire? Lì, nelle brume, che si accoglie l’assente senza riconoscerlo?
Forse. L’impressione finale, in ogni caso, è che, nell’impellente ondata di vuoto, si profili in filigrana la densità della vita, una vita che non può che ripiegare verso l’infanzia, la sola parola che dal passato proviene e che si vorrebbe udire, l’estasi feroce di un’epica non ancora sfinita.

*

da Tu, ira (Il Convivio Editore 2021):

Iniziamo da un precipizio
perché ormai non ti riconosco
e la polvere fa secoli sui calendari.
Lungo il fiume dei vent’anni
il futuro era un posto pieno di gente
una posa nitida tra fotologia e mitografia.
Adesso che gli anni si sono fatti ripidi dimmi: dove vai?
Negli occhi avevi farfalle
trafitte da un filo di ruggine appesa
come un miraggio dettagliatissimo
di cui so tutto e non ricordo più niente.
Quando eravamo immortali e non sapevamo il prossimo buio
i giganti seguivano i passi dei nostri alfabeti nel bosco
il dio dell’attesa poggiava il bastone sui sassi del pomeriggio.
Domani dimenticheremo che avevamo le ali.
L’unica cosa rimasta luminosa sarà la luce del danno
sarà questa resa.

Fotografia di Mike Uteshev

*

Questo cielo che mai più abiterai
è un nido di rapace nella bocca mia
e le prossime leggi non saranno
né nuvola, né vento, né amore.
Negli occhi tuoi, nei miei spenti aggettivi
e negli stormi di un’altra tempesta
la malattia che santifica ogni lingua
la febbre della distanza a battere in testa
e le confidenze delle sorelle che porto nel sangue.
Cantami il blu del danno
e ogni altrove dove non saremo.
Che fai, vaneggi?
Nella furia degli alberi immobili
lo riconobbero dalla voce, l’assassino.
Sotto il diluvio una fauna perfetta taceva
all’ombra delle coincidenze: eppur non muore.
Custodivo un guscio di voce nella foresta
dove piove, piove verde senza fretta
nei secoli degli specchi plurali.
Tu: gli animali ora sanno ciò che noi dimenticheremo
e perché tutto si perde.

Fotografia di Mike Uteshev

*

Spiccioli di cielo
e un vento che fa tremare quadri.
Divorata dalle mosche della letteratura
l’ultima luce del pomeriggio scuote la coda
come il tuo cane pettinato e devoto sulla soglia.
Ogni discorso scritto è un naufragio in miniatura.

*

Nazim Comunale è nato a Guastalla (Reggio Emilia) nel 1975. Docente di scuola secondaria, è giornalista musicale per Il Manifesto, Blow Up, Il Giornale della Musica. Ha pubblicato Aguaplano (autoproduzione, 2015), Lei Oceano (Terra d’Ulivi 2017), Chiamala febbre (Edizioni San Lorenzo 2020) e Tu, ira (Il Convivio Editore 2021), opera vincitrice del Premio Pietro Carrera 2021. Presente nella collettive Non ancora silenzio (NMZ 2019) e in Emilia Romagna (Bertoni Editore 2020). Ha avuto la menzione speciale nel 2019 al premio Raffaele Crovi. È tradotto in Venezuela e negli Usa.

Maura Baldini è avvocato e curatore fallimentare, vive tra Ginevra e l’Italia. Nel 2022 pubblica la sua silloge poetica di esordio (La slegatura, Il Convivio Editore), opera tra le vincitrici del Premio Carrera 2022.
Alcune sue poesie figurano sulla rivista letteraria “Avamposto”, sul trimestrale di poesia arte e cultura “Il Convivio”, e su diversi blog letterari. Appassionata della lingua francese, ormai divenuta lingua di adozione, si dedica alla traduzione letteraria.