DIARIO DELLA PRIMA ISPIRAZIONE

15 maggio
Non si può esigere un fato personale: le cose che accadono ci trapassano, c’immettono all’improvviso in una collaborazione, in uno strappo tra dentro e tutto, tra noi e un pendolo che oscilla.
Mi chiedo come farò, se ce la farò, a contenere quanto avviene nel silenzio. Ma non posso sfuggire alle sue leggi.
Quella, per esempio, di sentire il dolore degli altri.
Cammino e ho bisogno di armonia. Prego. Pregare è concesso.
Ieri leggere un libro è stato pregare.

*

Gettata nei tombini è l’anima delle prime strade.
Nelle sere ramate si distendono rugiada e fango.
A migliaia le stragi, in assenza di facce


21 maggio
In passato era imperativo: dare più del dovuto, amare fuori misura, in una sorta di euforica ubris, ignorando chi chiede di non ricevere al di là di quanto pattuito – chi chiede giustizia.
Saltellante e febbrile, andavo cercando alleanze tra le pieghe di questo donare a piene mani, di questo perdonare, letteralmente, chiunque non se ne accorgesse. Se non accadeva nulla, ecco delinearsi il territorio dell’altrui incomprensione. Ovviamente le incomprensioni erano due. E la seconda, generata, era un luogo più ricco, difficile, religioso, giuridico: unico luogo da cui attingere poesia. Ma per vederlo occorre essere saggi, decifrare con perizia quella sua giurisdizione, nel senso stretto del termine: tavola delle leggi da tradurre in uno stile e rendere pubblica. Non era ancora possibile, per anni e anni. Spinti dall’alibi dell’ingratitudine, siamo stati viandanti: un paesaggio di Monteverde, il primo sole di marzo, un pomeriggio autunnale davanti alla specchiera del sottoscala, uno dei tanti, con l’assillo di essere stati giovani troppo a lungo e di non esserlo stato abbastanza, misurando i solchi delle proprie mani bucate, ricordando la formidabile intuizione dantesca di collocare nello stesso girone infernale i prodighi e gli avari.

*

dissi
Gesù prendimi, nella macchia di questo
secolo ottuso, nel rosso mistico di una
sferzata di marzo. Nella casa solo per
dormire non ho appuntamenti, mi hanno
portato qui, l’aria si sente dalle cantine
dove veglia il guardascala e la rivolta
è un labirinto onirico


4 giugno
Da ragazza, come tanti, scrivevo un diario. Anche adesso. Ma allora credevo che fosse, per sempre, l’unica maniera di legarmi alle parole per slegare dal foglio il tono vero della mia voce, quello inconfessabile e brulicante sotto il cuoio dell’agenda e la chiave del cassetto: storie anguste di famiglia e di quartiere dove urlavo a cielo aperto il dolore e la gioia. Dovette accadere nella mia vita qualcosa di silenzioso – non so quando, non so cosa – perché osassi chiedere un luogo in cui ospitare dei versi, scrutare leggi e fattezze, la simultaneità di un contenuto con il timbro della sua musica.

*

Mi coprirò con le mani dal freddo
con le mie mani dal sole troppo forte
dal vento con le mani da impazienti memorie.

Dai rivoli dei tombini salgono messaggi
magici senza annunciarsi,
le foglie rincorrono gli autobus
il vento drappeggia cappotti e capelli
io sono in diagonale con una voglia olfattiva
presente in qualche angolo della luna nuova.


*

4 giugno, sera
Fu la prima, tremante, orgogliosa, acerba richiesta. Furono, come in uno specchio, le prime risposte. “Sì, alle nuvole che incido quando me ne vado tra i liberati lecci”, “Il giorno lo conducevo procacciandomi la calma”, “Mattino aperto è questo che si vive come in guerra”. E fu il primo libro, scritto dal 1980 al 1986, alternando periodi di stasi ad altri di inclemente pretesa nei confronti del verso. Mondo e segno poetico dovevano coincidere in un’alleanza scardinante. Tutto ciò poteva darsi solo a patto di superare delle prove. Nessuna indulgenza verso sé stessi, nessun tradimento: solo uno stato di allarme e di vigilanza continui. […]

*

io nuda senza ritorno
in cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue mappe,
cosmico luogo per camminare ai bordi, in verticale

*

8 giugno
Si stava sprigionando un magma a lungo compresso, stagnante in varie zone dell’essere. Ne venivano coinvolti organi vitali interni e esterni: braccia, cuore, petto, gambe, in una lotta ingaggiata con la carne e con l’idea (‘Il cuore era un marchingegno schiacciato dalla folla’). Invisibile, il nemico. Ma primitivo. Sordo il combattimento. Solitudine, speranza, salvezza, si allontanavano per poi baluginare in un effetto di acuta rivelazione. In questi momenti non si sa cosa sia l’ispirazione né ci si interroga su di essa. Si scrive per una grazia violenta che si è impossessata di noi. Una norma imponente ci spinge a farlo, ci dirige, ci aziona. È un momento atemporale in cui a ogni cosa si vuole dare nome.

*

allora nessun temporale mi spense
e io ero viva oltre la diga e la nevicata
come se tutto mi avessero detto
come se niente mi avessero dato

*

S’impara così a distinguere, a munirsi della resistenza e dell’attrito, quella particolare fede del sottrarre che è propria di un moto dell’anima verso l’ignoto.


Al mattino, bastioni di animali

inscenano farse gioiose.
Non vedo niente, ho poco tempo
per spostare gli oggetti, direi
è così fra un viaggio e quello dopo

*

L’ispirazione non era dunque una compagna comprensiva, ma qualcosa capace di trainare in maniera dispotica verso quella forza di astrarre. Pretendeva udito, assoluta attenzione. Era intrecciata alla dottrina, ma spesso le imponeva di scordarsi che c’erano già stati un mondo e un’arte. Rimaneva lì, visibile, nella punta estrema del delirio e del realismo, nel loro dissidio, nella subitanea armonia.
L’ispirazione, in me, era sempre generata da quell’intreccio.

*

Il vento e quanto sciamare ancora.
Nel corso degli eventi
nel chiocciare del mare
che si è appena alzato
e ascolta nel giardino: animali-alberi-navi.
Salsedine fra il tuo e il mio seno
e i bordi delle piantagioni: freddo
salpare, fresco respirare


Qualcosa d’immemorabile prendeva sembianze attraverso l’accedere miracoloso nella terra che non esiste: scrivendo, sentivo avvicinarsi questo accesso. Ricordo alcuni sogni di allora: una diga che chiudeva un mare nero, degli invitati e poi lo scrosciare della pioggia con lo sconosciuto davanti a una chiesa umbra. Tutto irrompeva precisamente. Il suono della frase, le figure del loro disporsi, slittare, inchiodarsi, suggerivano un’apertura dell’anima talmente vasta da accogliere più parole del progetto sancito, sicura che un’altra e più veritiera gerarchia si sarebbe formata.

*

Vorrei cantare scuotendomi in urlo
tenebre risorte, germoglio di pianta
inefficiente per la mia tribù,
al sole che nel frattempo ho conservato
in preda al mio polso fra le arcate a sostegno:
pietra, monti e cattedrali.
Vorrei cantare scuotendomi in tarlo
un avvenire sottratto al guscio di ottobre
ai mesi infiniti rotanti a battito sordo.

Senza alcuna briglia, dolce contagio
dolce tuo respiro dove si scontra il sentire:
pietre tonde e bracci di navate
bisbiglio, sereno passaggio.

*

12 giugno
In tal senso, valore e insegnamento ricavai dalla lettura di Documento. La poesia di Amelia Rosselli, ricca, centrifuga, densa di richiami, mi appassionava con la sua adesione integrale al dicibile. Mi appassionava l’uso di un ‘tu’ che può essere qualunque cosa. Da questo tu, ampio e trascolorante, nasceva, continua a nascere per l’io una spinta a raggiungere l’altro, a sentire lo sterminato corpo dell’esistente come un corpo umano: tentacolare e devoto al proprio unico nucleo, sospeso tra la calma notturna del più semplice desiderio e il tacito scatenamento che nessuna tempesta può rappresentare.

*

La provvidenza premiava il mio
terribile tirocinio, l’anima era
più acuta di qualsiasi spada.
Le fattucchiere ignoravano
il senso della mia religione.



APPUNTI SUL CARCERE

Il carcere. Rebibbia. Cinque, sei cancelli, porte blindate che si attraversano, tu lasci alle spalle l’esterno, una condizione unicamente economica dell’esistenza; e di là, dall’altra parte, la stessa realtà speculare rovesciata, agognando, sperando con ogni forza di esserne fuori: il coro multiforme dei disgraziati, di quelli che “non hanno i soldi per pagare un avvocato”, degli sfortunati, dei tanti che dopo collegio e carcere minorile, droga e manicomio non hanno trovato che altra disperazione o qualche visita mensile di indaffarati e distratti psicologi, assistenti sociali. Ma c’è spazio per tutti e nessuno di noi può sentirsi veramente diverso dai tanti, se non mettendo a tacere i propri demoni, i personali sotterranei minimi delitti di tutti i giorni. Chi può non pensare che soltanto per pura coincidenza, ci troviamo dall’altra parte del muro?

*

Le detenute hanno volti pallidi di guerra
– il pulviscolo scintilla nel sole
e ovunque, ovunque speranza,
speranza, speranza! –
Hanno tuniche spartane, pantaloni brandelli
Varcano la soglia
voltano le spalle
Non sappiamo, non sappiamo
la luce cosa vuole
là sulla tavola, nella cella
in ogni angolo splende
traspare dal trucco che cola –
Senza far rumore, senza freddo
forse sarà maggio o cosa
chiede il calcolo dei giorni?
Forse avrò fatto un sonno pieno!
Oh cosa chiede il calcolo dei giorni
con quel vestito di cronaca nera
storie di una vita o di una notte
di magia o di teatro!
Forse avrò fatto un sonno pieno
forse piangeremo o forse
Dio ci renderà saggi
frastornati saremo nella calma
delle finestre aperte
penetrerà maggio nelle prime luci dell’alba. –

*

Perché qualcuno non possa dire: io devo ancora pagare, e un altro non senta come profonda incolmabile
ingiustizia la sproporzione di una pena troppo lunga per una misera violazione. Perché non si avverta inutile una reclusione che non santifica né minimamente migliora. Simone Weil scriveva: qual è il legame tra il castigo e il perdono? – La guarigione – si spera che il castigo sia un rimedio che emenderà il criminale; una volta emendato, egli sarà per ciò stesso perdonato. Mi chiedo se un uomo sarà perdonato e da chi e perché, se avrà mai espiato in un sistema carcerario come il nostro. Viene irresistibile una suggestione: vuol dire forse che tutto il male suscitato in questo mondo non può che viaggiare da uomo a uomo, fino a cadere su di un essere perfettamente puro che lo subisce e lo distrugge?

*

Chi si prende cura di noi
in quel battito d’ali è il flusso divino ed il respiro.
In questo vuoto è compassione, in questa zona
fuori legge ci si può salvare


DIARIO: REBIBBIA, ANCORA L’ESPIAZIONE, UN ALTRO FILO

20 aprile
Ogni giorno vedo passare intorno alle vie del mio portone una prostituta.
È lì nei momenti più impensati e sembra non attendere niente.

*

ogni giorno una prostituta mi guarda
ha come me una fascetta sul braccio
anch’io della sua razza randagia irosa in cammino

*

La scorsa domenica ho parlato di lei in una poesia, ma è già molto tempo che è diventata assillo, ispirazione. La donna evita sempre il mio sguardo e se mi vede torna indietro di pochi passi oppure con decisione rifà il giro dell’isolato nella direzione opposta.

*

lei non lo sa da dove viene il pianto
dalla profondità di miserie e rancori
dalla classifica dell’odio, da un pomeriggio infame di luce

22 Aprile
La passeggiatrice mi riporta indietro negli anni, al mio quartiere eterno: Monteverde, nucleo intatto. Dal mio balcone vedevo donne, ancora ragazze dalle tinte sfumate. Ero bambina già vecchia, ignara, curiosa, avida di storie e di particolari privati. Allora era il presente, non sapevo cos’era uno stato di grazia dolce, indulgente. E ora mi appare come in un concreto sogno il portone pieno di mosconi in aprile e poi la via stretta in salita fra le rade palme e le palazzine arancioni scrostate.
Passo tutta la vita a ricordare, sempre dentro l’amore, un amore senza volto, senza chance, onnipotente e silenzioso.

*

Sono nella frenesia
della strada che pare insensata
il dolore dei tanti mi giunge
come un passo attutito
è tanto e dolce, è di pietra
questo loro terrore, si accostano
e chiamano, è in bilico la mente
chi dirà santo questo percorso
chi laverà le nostre prediche
di sangue, chi capirà l’oltraggio
la scomparsa, la salvezza.
Dio, da’ gambe più forti
a quanti sono all’erta in questa notte

ph Dino Ignani


Durante le giornate che si susseguono caotiche e insensate, ci siamo detti: la poesia non può essere l’unica ragione della mia vita. Questa voce interiore, bassa e introversa ma martellante come un assillo, ammutoliva di fronte alla prepotenza di un’altra voce che cercava di raccogliere tutto nella misteriosa trama di un’espressione poetica. Chi vede l’espansione di un territorio prelinguistico che è all’inizio suono disarticolato, pura voce allarmata, è costretto a contraddirsi strenuamente.
L’impegno quotidiano del poeta non ha niente di predeterminato; il suo scartare, separare ombre e luci,
pieni e vuoti, richiede una vigilanza che nessuno impone.
Nessuno e tutti chiedono qualcosa che trascina nostro malgrado nell’altra dimensione dell’essere, che grida umilmente e a bassa voce in ogni minuto della nostra vita.


*

lo scorrere
sonoro dei vicoli in quella luce forte dei poveri

*

Tutto tradisce e convoglia in un’altra direzione, dove altre leggi dominano i nostri atti e ci pongono continuamente di fronte a una scelta. Soccombere alla noia e alla bruttezza feroci sembra la scappatoia inevitabile.

*

la bellezza che scorre fra le nostre carte
gara che pur ti sembra poco,
qui dentro le mura proteggersi
lavarsi, incantarsi. Fuori le mura
i lessici stranieri, fuori dalle mura
sanguina l’autunno
guerreggiare sordo e insolente


*

Soccombere alla bruttezza delle parole e delle azioni.
Allora inventare altri nomi per le cose sembra l’unico atto di coraggio, l’unico grido possibile. Soccombere o additare, resistere. Resistere è vedere un oggetto da ogni posizione e in ogni sua parte con lo strenuo rigore del monaco che continua a pregare mentre tutto intorno è assurda maceria.

*

Vivi nel buio appena acceso, amori santi sotto
i colpi del coprifuoco, amori santi in quel mondo antico
che morde nella periferia quel ferro arrugginito, umani
nuotano forte dove si fugge dalla parola, dal ventre esatti.
Clima, stagioni fate presto, fatelo con tutto
il vostro ardore, allenatevi nella nebbia, salite
dove si scansano macerie, su quell’unica auto in corsa,
in quel punto dove partono treni e sulle rotaie
sorride il pianto dei bimbi, i bimbi non sanno
non vedono e hanno la selvaggia preghiera in bocca,
i bimbi nuotano forte, i bimbi dentro la nostra pace


Resistere è accogliere la parola fatta carne di Mandel’štam, di Cvetaeva, di Dostoevskij, assumerla, tramandarla, adempiendo così a una combinazione karmica, a una missione, coscienti di essere custodi di quella parola, l’unica parola da lasciare in eredità. È lo sforzo quotidiano di far sì che tutti vedano, ad esempio cosa resta su di un vetro dell’estate, cosa sorprende un uomo solo, e ancora un gesto di dedizione, di pietà, di riconoscenza.

*

Persino improtetta, facendo ricorso
alla massa di luce del cielo, qualcosa
si accendeva ribelle alla fine del male.
Si scartava il tempo di una giornata
piovosa, il resto pioveva magnifico
fra le piante e il ponte. Questo
costituiva il tempo, l’unità del tempo



Far vivere una parola poetica vuol dire essere legittimati in una collettività, rispondere a delle leggi comuni, giurisprudenza dell’onore di una parola data, Né trascrittura del reale né isola di una gioia rarefatta.
Come trasformare l’imperfezione se non attraversando ogni impervietà, ogni imperfezione? Il linguaggio della poesia consente una libertà smisurata; straordinario è tradurre in poetico l’infinito impoetico; possiamo liricamente dire di un incontro mancato, di un presidente ucciso, di una lontananza imminente, di un fanciullo che ci pone una domanda mentre il profumo di una sera di giugno attraversa in diagonale la nostra strada. Separare e resistere è la religione della poesia: tenere unito è il nostro ringraziamento e la maledizione del sentire che è semplice e avido di un’altra comunicazione che lungamente, fermamente, vuole l’oggetto più vicino della terra, il punto più lontano del cielo.

*

Mi avesse dato un lume l’alba
fra le quattro mura, e un nome
per gli altri che volevano il segreto

*

[n.d.r.] dice Walter Benjamin:

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle”

*

uomo benedetto della tempesta, non sapeva,
nubifragio delle forze inespresse, non sapeva
oh bestemmia di mezza stagione
ci serve un dio
che risponda nel tempo

*

Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volta le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, questa tempesta.”

*

Se l’Angelus Novus di Klee è l’angelo della storia, c’è poi un altro angelo: la celebre incisione di Dürer che presenta qualche analogia con l’interpretazione che Agamben dà del quadro di Klee. Essa rappresenta una creatura alata seduta, in atto di meditare con lo sguardo assorto davanti a sé. Accanto ad essa, giacciono abbandonati al suolo gli utensili della vita attiva: una mola, una pialla, dei chiodi, un martello una squadra, una tenaglia e una sega. Il bel volto dell’angelo è immerso nell’ombra.
Se l’Angelus Novus è l’angelo della storia, nulla di meglio della malinconica creatura alata di quest’incisione di Dürer potrebbe rappresentare l’angelo dell’arte del pensiero, delle conoscenze. Mentre l’angelo della storia ha lo sguardo rivolto al passato, ma non può arrestarsi nella sua incessante fuga a ritroso verso il futuro, l’angelo malinconico dell’incisione di Dürer guarda immobile davanti a sé. L’angelo della storia le cui ali si sono impigliate nella tempesta del progresso, e l’angelo dell’arte, non devono essere separati; o meglio c’è una tensione continua fra l’uno e l’altro.
È fondamentale il tema dell’angelo, ossia del messaggero. E questo il tempo in cui si tratta di salvare non un’opera o un’altra ma il senso stesso della trasmissione.

*

Ombre erano i passanti a cui volevo
spiegare la precisione di amarti
senza posa, nelle conche del vento
nel trambusto del cielo
sopra la portata del paradiso

*

E noi siamo responsabili di qualcosa che non è più soltanto un messaggio ma la possibilità stessa di averlo in consegna. Non si può giungere ad un punto per approssimazioni successive, come dice S. Agostino: noi ci troviamo in una barca sul fiume nel pieno della notte, non sappiamo né in quale punto del fiume ci troviamo, né quale è la riva. Proprio per questo siamo costretti a un salto nel buio, a uno strappo, a qualcosa che ci sposta dalla logica lineare dell’avvicinamento. Il futuro non è deducibile nei termini di un tempo provvidenziale, ma piuttosto di un tempo che sta per diventare, di un tempo del presagio, del frammento, del ritorno.



La notte romana getta nell’acqua della madre dopo le madri
ma la cosa è ugualmente fragile e orfana:
i fori, le statue di giugno, i giorni
caldi gravi di Via Merulana
dove solo qui si è poveri in pace
e la ragazza con sandali ferma il tempo
sull’agenda stracciata, non è signora
né puttana né fiore all’occhiello
della serata ufficiale, mostra versi
al parlatoio orientale dove il pianto del neonato
è quello di sempre
dove il pianto cresce e muore e poi ancora rinasce in un’altra
rondine sul glicine al tempo balordo
con accento stonato. Lì il bambino cinese, Ahmed
o Mustafà raccolgono fiori e fortuna di derelitti
senza ritorno come abbandonati pellegrini
a cui nessuno chiede veramente se importa morire
rapiti e rapinati immersi in un sonno lieve straniero

*

Pensare la tradizione significa sentire un turbamento e un’intimità, un contatto e una estraneità: qualcosa si è definitivamente concluso eppure c’è qualcosa d’improsciugabile, qualcosa che continuamente fa presagio, ci avvisa intorno a questa parola troncata.

*

i giorni sono avari di labbra, ruotano congelati
in un’epoca immobile pieni di sangue


Dare nascita e nutrimento a un linguaggio poetico – lungi da quanto crede l’Avanguardia – richiede una parola che ospita in sé l’eredità del rito insieme alla contingenza di un luogo qualsiasi. Un linguaggio dove l’unicità dell’opera (da scrivere) coesiste con la sua forza esemplare (da trascrivere). Ed ecco, ancora una volta, quell’urgenza di una parola che per essere politica esige un estremo di assoluto, per incontrare ciò che è ignoto esige il ricordo della meta.

*

Non sono niente
solo vorrei il volto
più affilato sotto il mio
piccolo colbacco
ed essere riconosciuta
in questo niente onesto
di sangue e di tormenta
in quel nubifragio
che sempre tutto distrugge,
noi e gli altri
case e volti della guarigione


*

LA LEGGE, L’ESTASI, L’INFANZIA

“Il mondo si ridurrebbe a un campo di maledizione e di sterminio se gli uomini cessassero di riconoscere dei simboli di verità poetica nelle cose reali” (Elsa Morante).
Noi non possiamo andare da nessuna parte. Questo semplice pensiero, che talvolta appare solo come dato, può invece concretarsi nella percezione netta di un altrove spirituale che ci manca e richiama.
Dentro e fuori sono compresi in una stasi che senza tregua intona la domanda. Può la poesia non accoglierla, se davvero vuole difendere l’uomo dalla sua distrazione?


*

C’è qualcosa di buono in noi
che si chiama Dio questo preghiamo che venga
quando dolcezza e meta sono corpi
malate carcasse che non vedono quel bambino
che picchia la palla con l’energia divina.
– La luce della stanza vedrà le cose per la prima volta
– Lui continua a salvarmi
dovevamo compiere una strana missione. –

Questo domanda, questo grida; che venga la gioia
con fulmini e alluvioni. –
Questo è tutto

*

In una giornata, negli attimi che la compongono, leggiamo i nostri andirivieni, le antiche felicità che bussano, i tentativi di imitare con i ferri del mestiere ciò che, per un attimo, siamo stati. Ed è la poesia che ripete questa ‘domanda essenziale’. Accordare il tempo degli orologi con quello della storia, sapendo quanto sforzo, quanto paziente maturare sia necessario, quanti giorni tesi a plasmare un nostro discorso sul metodo.

*

Qualcosa sarà dentro la memoria:
culla e croce
a mano armata o a mani giunte
con il respiro dei perduti



Perché la poesia stessa ci insegna: il metodo è l’etica Per molti – me ne sono accorta in questi anni a Rebibbia – la colpa sembra rispondere a quella domanda essenziale. Commettendo un delitto si cerca uno status immediato, si cerca di radunare i frammenti di sé nel perimetro di un’aula giudiziaria.
Ma un delitto del genere è proprio ciò che elude il rapporto con il male, con la sua voce più segreta e salvifica. Riducendo l’espiazione alla forma numerica e impersonale dell’essere punito (“mi hanno dato sei anni”), non si può collegare questo tempo al tempo presente, iniziare il cammino che lo purifica e che, esso solamente, lo assolve.

*

questa pietà tu la renderai e non sarà la gioia pura
dell’ultima ora, ci vedrai alla fermata come fossimo sacre puttane
che a tutti danno insolitamente tavola ordinata e stufa accesa
e tutti guarderanno dritto negli occhi quel punto più puro e
nascosto di ognuno. Luce, luce per chi non si sente degno

*

Ogni nostra parola poetica ci chiama a giudizio.
Vuole ritornare cronologica e trepidante, politica e originaria, potente esercizio del cuore e della mente: parola d’onore capace di promulgare una legge.

*

oh viene quel segno perduto del tempo
viene il tempo con la rotta voce dei figli offesi e innocenti,
dei corpi impietriti nel fosso, di tutti
i corpi del mondo che non hanno accesso nel giorno.

*

Tutt’altro che priva di vincoli, la libertà del poeta è quella di crearne via via dei nuovi.

[…]

Occorre vedere, dietro il grigio del male, dietro il verso che corteggia muto, l’attimo in cui una poesia ci
chiama testimoni oculari. La vita adulta insegna questo attimo. Si sta fermi davanti a qualcosa, si cercano delle frasi.

*

fino a tardi il nostro amore sarà faro folle contro
la morte, piccolissime cure speciali senza preliminari
farmaci e magie, pendoli e croci dagli angoli bui
il resto a più tardi contro le nostre povere spalle con la mano alzata


Solo le piume degli alberi rammentano il bianco del muro; infanzia, appiglio, maledizione celeste. Nella memoria il senso si placa e si delinea, l’attimo si spalanca e si estranea. La visione ormai consanguinea all’infanzia è nostra. L’abbiamo sempre posseduta: occorre riconoscerla. La visione della grotta e dei santuari, luoghi solitari, consegnati a padri inermi e gentili.
Nasce il desiderio di essere lì: di volta in volta e, insieme, una volta per tutte. Panico, stupore, stato di grazia, sguardo pulsante che si unisce al ramo secco di un tiglio o al grigio della Tiburtina.
Una parola si stacca da sé e ci abbandona, ci lascia muti in attesa che il tempo essenziale si compia.

*

Per chi non è amato, meraviglia,
ricompensa e meraviglia a chi è soave, a chi sente gli umani
e con la voce lo sguardo porge la parola come una preghiera

*

È la fine di un secolo. Restiamo qui, invochiamo una parola che davvero ci conduca oltre il Novecento.
Una poesia che sappia essere assolutamente moderna, che sappia ‘scambiare segnali con Marte’ nel momento stesso in cui nomina i luoghi e i corpi della nostra memoria, consapevole che quanto è avvenuto non è meno imprevedibile di quanto avverrà.



Trova il nuovo grande come bara
l’amore folle che guarisce, affonda in una morte
che non ricorda, poi qui sarà tutta nuova la cascina
ci sarà la nuova vita, il canto buio degli alberi
il canto disperato degli uccelli, l’ombra degli alberi santi,
né miseria, né carni, né questioni private
solo quella melodia, qualcuno che infantile
scova lentamente
in uno stato d’incendio areremo
entreranno nella casa tutti insieme
con i cori dei salmi



Giovanna Sicari (Taranto, 1954 – Roma, 2003) ha vissuto a Roma, dove ha insegnato nel penitenziario di Rebibbia, e a Milano. Le sue principali raccolte di poesia sono: Decisioni (1986), Ponte d’ingresso (1988), Sigillo (1989), Uno stadio del respiro (1995), Epoca immobile (2003). Ha inoltre pubblicato La moneta di Caronte. Lettere e poesie per il terzo millennio (1993), La legge e l’estasi (1999), Milano nei passi di Franco Loi (2002).


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I testi in prosa sono tratti da Giovanna Sicari, La legge e l’estasi, a cura di Roberto Roversi, I Quaderni del Battello Ebbro, 1999; le parti in poesia da Giovanna Sicari, Poesie 1984-2003, a cura di Roberto Deidier, Empirìa 2006

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