Cristina Campo

La verità non può venire al mondo nuda
anzi è venuta nei simboli e nelle figure.
C’è una rinascita, e c’è una rinascita in
figure. In verità essi dovranno rinascere
in grazia della figura.

VANGELO DI FILIPPO

Nei vecchi libri è dato spesso all’uomo giusto il celeste nome di mediatore. Mediatore fra l’uomo e il dio, fra l’uomo e l’altro uomo, fra l’uomo e le regole segrete della natura. Al giusto, e solo al giusto, si concedeva l’ufficio di mediatore perché nessun vincolo immaginario, passionale, poteva costringere o deformare in lui la facoltà di lettura. «Et chaque être humain (e si potrebbe aggiungere: et chaque chose) crie en silence pour être lu autrement».

Per questo appare così importante la libertà del cuore. Tutte le chiese la raccomandano come igiene spirituale: vigilanza contro i turbamenti, disponibilità alla rivelazione divina. Nessuna chiesa però disse mai esplicitamente: mantenetevi puri nelle opere e nei pensieri per conciliare gli uomini e le cose secondo uno sguardo senz’ombre. Qui poesia, giustizia e critica convergono: sono tre forme di mediazione.

Che cosa è dunque mediazione se non una facoltà del tutto libera di attenzione? Contro di essa agisce quella che noi, del tutto impropriamente, chiamiamo la passione; ossia l’immaginazione febbrile, l’illusione fantastica.

Si potrebbe dire a questo punto che giustizia e immaginazione sono termini antitetici. L’immaginazione passionale, che è una delle forme più incontrollabili dell’opinione – questo sogno in cui tutti ci muoviamo – non può servire in realtà che a una giustizia immaginaria. È questa, per esempio, la differenza essenziale fra la giustizia passionale di Elettra e la giustizia spirituale di Antigone. L’una immagina di poter avanzare colpa per colpa, spostando il peso della forza dall’uno all’altro anello di una catena infrangibile. L’altra si muove in un regno dove la legge di necessità non ha più corso.


Antigone davanti al corpo di Polinice, Benjamin-Constant


Al giusto, infatti, contrariamente a quanto di solito si richiede da lui, non occorre immaginazione ma attenzione. Noi chiediamo al giudice una cosa giusta chiamandola con un nome sbagliato quando sollecitiamo da lui «dell’immaginazione». Che cosa mai sarebbe in questo caso l’immaginazione del giudice se non arbitrio inevitabile, violenza alla realtà delle cose? Giustizia è un’attenzione fervente, del tutto non violenta, ugualmente distante dall’apparenza e dal mito.

«Giustizia, occhio d’oro, guarda». Immagine di perfetta immobilità, perfettamente attenta.

Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura.

I Greci furono esseri sdegnosi di immaginazione: la fantasticheria non trovò posto nel loro spirito. La loro attenzione eroica, irremovibile (di cui l’esempio estremo è forse Sofocle) di continuo stabiliva rapporti, di continuo separava ed univa, in uno sforzo incessante di decifrazione così della realtà come del mistero. I Cinesi meditarono per millenni allo stesso modo, intorno al meraviglioso Libro delle Mutazioni. Dante non è, per quanto scandaloso possa suonare, un poeta dell’immaginazione, ma dell’attenzione: vedere anime torcersi nel fuoco e nell’olivo, ravvisare nell’orgoglio un manto di piombo, è una suprema forma di attenzione, che lascia puri e incontaminati gli elementi dell’idea.

Dante Alighieri, Andrea del Castagno


L’arte d’oggi è in grandissima parte immaginazione, cioè contaminazione caotica di elementi e di piani. Tutto questo, naturalmente, si oppone alla giustizia (che infatti non interessa all’arte d’oggi). Se dunque l’attenzione è attesa, accettazione fervente, impavida del reale, l’immaginazione è impazienza, fuga nell’arbitrario: eterno labirinto senza filo di Arianna. Per questo l’arte antica è sintetica, l’arte moderna analitica; un’arte in gran parte di pura scomposizione, come si conviene ad un tempo nutrito di terrore. Poiché la vera attenzione non conduce, come potrebbe sembrare, all’analisi, ma alla sintesi che la risolve, al simbolo e alla figura – in una parola, al destino.

L’analisi può diventare destino quando l’attenzione, riuscendo a compiere una sovrapposizione perfetta di tempi e di spazi, li sappia ricomporre, volta per volta, nella pura bellezza della figura. È l’attenzione di Marcel Proust.

Marcel Proust


L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola.

Davanti alla realtà l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente e come simbolo (pensiamo ai cieli di Dante, divina e minuziosa traduzione di una liturgia). Essa è dunque, alla fine, la forma più legittima, assoluta d’immaginazione. Quella a cui allude senza dubbio l’antico testo di alchimia là dove raccomanda di dedicare all’opera «la vera immaginazione e non quella fantastica». Intendendo con ciò, chiaramente, l’attenzione, in cui l’immaginazione è presente, sublimata, come il veleno nella medicina. Per uno dei tanti equivoci del linguaggio, comunemente la si chiama «fantasia creatrice».

Importa poco se a questo attimo creatore, nel quale si compie l’alchimia della perfetta attenzione, conducano lunghi e dolorosi pellegrinaggi, o se scaturisca da un’illuminazione. Tali lampi non sono se non quella scintilla (di origine e natura sempre più misteriose via via che per ogni cosa ci viene fornita una chiave) che l’attenzione sollecita e prepara: come il parafulmine il fulmine, come la preghiera il miracolo, come la ricerca di una rima l’ispirazione che proprio da quella rima potrà sgorgare.


Fotografia di Luigi Mori


A volte è l’attenzione di un’intera stirpe, di tutta una genealogia, che avvampa improvvisamente alla scintilla di un dio: «Io posi li piedi in quella parte della vita di là della quale non si puote ire più per desiderio di ritornare…».

Questo individuo dall’attenzione conclusiva, rapinatrice, il mondo lo definisce, con un’abbreviazione molto bella, un genio, significando colui che è abitato da un demone, che incarna il manifestarsi di uno spirito sconosciuto.

Come il gigante dalla bottiglia, dall’immagine l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine: a somiglianza, ancora una volta, degli alchimisti che prima scioglievano il sale in un liquido e poi studiavano in quale modo si riaddensasse in figure. Essa opera una scomposizione e una ricomposizione del mondo in due momenti diversi e ugualmente reali. Compie così la giustizia, il destino: questa drammatica scomposizione e ricomposizione di una forma.

L’espressione, la poesia che ne nasce, non potrà essere, evidentemente, che una poesia geroglifica: simile ad una nuova natura. Tale che solo una nuova attenzione, un nuovo destino, la potrà decifrare. Ma la parola svela istantaneamente a quale grado di attenzione sia nata. Lo svela col suo peso, terrestre e sopraterrestre: tanto più rispettato, tanto più circondato di silenzio e di spazio quanto più intenso è stato il tempo dell’attenzione.


Fotografia di Luigi Mori

Ogni parola si offre nei suoi multipli significati, simili alle faglie di una colonna geologica: ciascuna diversamente colorata e abitata, ciascuna riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare. Ma per tutti, quando sia pura, ha un colmo dono, che è totale e parziale insieme: bellezza e significato, indipendenti e tuttavia inseparabili, come in una comunione. Come in quella prima comunione che fu la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

La parola del maestro, dice un racconto ebraico, appariva a ciascuno un segreto destinato all’orecchio suo e a nessun altro: sicché ciascuno sentiva come sua, e completa, la storia meravigliosa che egli narrava nelle piazze e di cui ogni nuovo venuto non udiva che un frammento.

«Souffrir pour quelque chose c’est lui avoir accordé une attention extrême». (Così Omero soffre per i Troiani, contempla la morte di Ettore; così il maestro di spada giapponese non distingue tra la sua morte e quella dell’avversario). E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia.

Fotografia di Peter Holen (particolare)



Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.

Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione. Chiedere a un uomo di non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione, è chiedergli di attuare la sua massima forma.

È chiedergli qualcosa di molto prossimo alla santità in un tempo che sembra perseguire soltanto, con cieca furia e agghiacciante successo, il divorzio totale della mente umana dalla propria facoltà di attenzione.

*

Cristina, fin dai tempi di Firenze, sognava di creare con alcuni amici “una rivista di giovani, uomini e donne, stanchi di contaminazioni e di alibi”, cui aveva destinato il titolo profondamente weiliano di «L’attenzione». Un progetto cui lavorò con dedita convinzione, insieme all’amico Remo Fasani, verso la metà degli anni Cinquanta.
Ne aveva anticipato e auspicato i temi in un intervento apparso sulla rivista «Stagione» nel settembre del 1956: “l’attenzione come ricerca della parola e del gesto perfetto, che in ogni epoca parlano all’uomo, ritorno all’idea perduta di tempo circolare, da sostituire alla menzogna del tempo come linea retta, rifiuto del concetto di attualità, lettura a piani multipli” (come riporta Cristina De Stefano, in Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi 2002).
Cristina non riuscì a portare a compimento il suo progetto. È di alcuni anni a seguire (1961) il saggio Attenzione e e poesia, che abbiamo qui riportato, ora parte della raccolta di saggi Gli Imperdonabili, a cura di Guido Ceronetti e Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 1987. In questo piccolo spazio di poesia dell’Astero rosso celebriamo e ricordiamo il desiderio di Cristina, nella misura in cui ne siamo capaci. (I.B.)