Terra d’ulivi edizioni 2020
postfazione di Sergio Pasquandrea

Dalla postfazione di Sergio Pasquandrea, leggiamo:

Ho sempre ritenuto che in una silloge di poesie debba esistere una linea narrativa: in alcuni casi palese, […] in altri nascosta e sotterranea come un’acqua carsica; ma c’è, ci dev’essere. Per «linea narrativa» intendo una serie di corrispondenze, riprese, cadenze, ritornelli, rime interne, una direttrice di svilupро che renda il volume non una semplice sequenza di testi, ma un insieme coerente. Poi ci dev’essere una voce: un timbro che faccia distinguere quel poeta tra mille altri. In Archivio del bianco li ritrovo entrambi […] Cominciamo dal secondo punto: la voce. Che significa molte cose, tra le quali: ritmo, cura dei dettagli, senso delle immagini, icasticità. Parlo volutamente di immagini perché la poesia non si deve solo sentire, ma anche vedere. Ci sono dei versi, in questo libro, che hanno una bellissima evidenza visiva; ad esempio: «Ti piaccio con le mascelle spalancate e gli occhi chiusi»; oppure: «Il seno in controluce si solleva e si abbassa / dalla finestra entrano api e trifogli»; o ancora: «Settembre ha notti premature / i tuoi pugni stringono il silenzio / Un piatto caldo a cena», che è quasi (non per la metrica forse, ma senz’altro per la sintassi) un haiku.
E, parlando di haiku, a dettare il ritmo di queste poesie è anche il loro ritmo scorciato, allusivo, il loro troncarsi spesso a metà di un discorso demandando alla pagina bianca il compito di completarlo, il modo di accostare i versi lasciando tra l’uno e l’altro delle lacune.
E veniamo al secondo punto: la linea narrativa, gli echi e le riprese interne che popolano questi testi.
Prendiamo ad esempio i primi due della sezione Dentro e fuori. Nel primo c’è una finestra, dalla quale l’io lirico «precipit[a] / con l’ala superstite di Nike». Il secondo si apre con: «Cado mi sbuccio / il mio interno è rosso». La cobla capfinida tra i due mi pare evidente (se poi sia intenzionale o meno, non importa).
Oppure: «Gli spigoli conoscono bene / il coraggio dei miei piedi»; e subito dopo: «Non eravamo sincroni / dovevi capirlo dai piedi / dai polsi dalla vena sul collo»; e in chiusura di tutto il volume: «Sono giorni di ginestre aperte, / api e febbre / finestre al sole / fiducia (silente) / piedi nudi e gatti che fanno l’amore».
(Approfitto per far notare la presenza sotterranea ma costante del corpo: denti, lingue, labbra, occhi, unghie che si rispecchiano di pagina in pagina).
C’è anche, in molte di queste liriche, un forte senso dello spazio, evidente sin dai titoli delle sezioni (Dentro e fuori, A margine); ci sono molti corpi in movimento, molte porte, finestre, stanze attraversate. Insomma, è come se le poesie contenessero, in nuce, accenni di storie che l’autrice sceglie di bloccare in un singolo momento, invece di dipanarle in sequenza.
«Lei non ha un odore / rivestendosi si copre il seno con un braccio. / Lui invece è un feto» potrebbe essere l’inizio, o la fine, o magari il climax di un racconto. E chi sarà l’interlocutore che riflette così: «Il tempo non esiste, diceva – / allora cosa sono questi segni sulla mia bocca?». Al lettore la libertà di deciderlo.

*

Cado mi sbuccio
il mio interno è rosso
sgorga veloce e brillante
si ricompone denso
indurisce

La sua crosta è un ricamo,
dice che sono in salute.

*

Di questa casa che è solo un promemoria
la scenografia è neutra.
dovrei appendere alla parete quella nostra foto
in cui sorridiamo.


Opera di Stefania Onidi

*

Dettagli

Il cielo s’incurva ancora
polvere ovunque.
Tu che accadi tra le cinque e le sei.
La tua voce non è più le tue parole.
Mentre ti ascolto vedo la tua bocca
lago di carne
paesaggio del nord bianco aperto.
Prendi questo mio corpo, volevo dirti.

*

Cinque le dita dell’inverno
premono sul tempo vergine
domeranno il sangue
arrossiranno i fianchi all’alba.

*

Osserviamo la precisione della legge fisica
la sintassi del tempo
che non accontenta mai nessuno.
La materia adesso non impara più stagioni,
sarà altro.

Sistemiamo un corpo senza calore
involucro sfiatato
la sua fine e il suo nulla
sarà fioritura dell’assenza
e disagio delle mani.
(Milano, 27 ottobre 2017)

Opera di Stefania Onidi

*

Il seme diventa altro.

Mi parlava di metamorfosi
e nel buio esteso di colline
immaginavo albe e germogli.
Tutto aperto come un sorriso
o una ferita.

S’infuoca anche il cardo nella stagione finale
con i suoi petali asciutti.
Il sole muove fino a questa carità:
concedere al verde di farsi oro.

Opera di Stefania Onidi

*
Cura

Dovremmo toccarci oltre i corpi
tradurre con i palmi il movimento
infilarci nel verde di grano di questo grembo
d’aprile
con semi fecondi.

Saranno fiori prepotenti.

Guariremo nel solco di una gioia antica,
rapita ai territori conosciuti della nostra fame.

Opera di Stefania Onidi

*

Voracità tenera nella preparazione del gesto
quando si allargano le dita per una carezza
quando dentro una casa si esercita resistenza
o si spezza il pane o ci si abbraccia
quando la bambina corre incontro al gelsomino
e articola suoni nuovi.

La sua bocca è altare illeso
ogni sua parola è una falla
la si tace per alleanza e stupore.

Opera di Stefania Onidi