Anterem Edizioni 2025
nota di Silvia Comoglio


Porta nel titolo un’immagine pensosa e programmatica il recente lavoro in versi di Salvatore Marrazzo (La dimora di Eraclito, Anterem Edizioni 2025, nota di Silvia Comoglio), che chiama in tutela il presocratico del perenne fluire, ridandone poeticamente alcune gemme di potenziale radicalità, e cercando un asilo che abbia a cuore il linguaggio: un luogo di accoglienza eletta, se pur precaria, paradossale.
Quell’Eraclito che ha detto della vita il divenire, l’incessante scaturire e derivare: non caotica dissipazione, ma tessitura dinamica, ordine ritmico, segreta coreografia. Il poeta ha ben presente che, nella protratta, bilanciata tensione tra opposti, l’esistente eracliteo non è un’amorfa fiumana in cui ogni cosa si sfalda, ma una fucina perpetua, alimentata dal λόγος: fiamma cosmica, legge immanente dell’essere che esercita con pervicacia la contraddizione mediata. Nelle infinite concamerazioni alveolari del reale, ogni identità esiste tra gli antipodi che idealmente la delimitano, e il disgregato tutto si offre nella contesa, nel dissidio interno che lo sospinge e scandisce, dandogli misura.
Nel fuoco, cifra del mutamento, risiede l’essenza della vita: ciò che infonde moto, imprime ritmo, plasma l’ordine inesplicabile: unità dinamica del molteplice, che non ricusa ma preserva l’essere, nel suo volto più puro e ardente.
Così, nel nulla-di-stabile di Eraclito, parlare di una “dimora” significa cogliere un paradosso: abitare l’inabitabile, insediarsi nella metamorfosi. Non c’è fondamento statico, ma un ricovero volatile, che si plasma e si perde, come accade in queste scritture, così segmentate e arcane, mobili, erranti.
Il testo agglutina a componimento organico a partire da un florilegio di lacerti meditativi in forma melodica. Apparentemente, un epos del deragliamento, che fa dell’eccesso la sua etica e della decostruzione (in senso derridiano) la sua poetica. L’autore si muove in un dedalo di rifrazioni di vena mistica e filosofica, espresse in timbrica lirica, con un fraseggiare volutamente esitante, talora con tono sommesso, ma capiente di eredità intellettuali rilevanti, che ne fanno un gesto colto, felicemente stratificato: l’ontologia poetica di Heidegger, il bilico fecondo del reale tra presenza e ritiro, l’attitudine esistenziale di Gelassenheit, nell’attesa di uno spontaneo disvelamento che è Ereignis, puro evento di senso,  di relazione, dove soggetto e oggetto si donano esistenza l’un l’altro nella reciprocità.
Gottfried Benn, citato apertamente, laddove esorta alla “tenacia di una scrittura intransigente”, e pone all’erta sull’irriducibilità delle cose dello spirito, continua a suggerire un’auspicabile ascesi del linguaggio; e, se l’atto poetico diviene forma del disincanto, lo stile è comunque una trincea contro inconsistenza e futilità.
Onirico e barocco, lucido e beffardo, con qualche punta d’amaro, questo lavoro di Marrazzo sembra avvicinarsi per toni e postura (oltre ai citati Landolfi e Manganelli), all’ironica mitopoiesi di  Savinio, alla sua proliferazione visionaria, al surrealismo erudito, che miscela raffinatezza di conoscenze e un grottesco dettagliare, ideando cosmi paralleli deformati, di gusto epifanico ed esito intimamente maieutico. Riflessione autoanalitica, affondo nel declino ontologico della parola cui è forse sottesa un’inespressa nostalgia per le florenskijane certezze. La scrittura in Marrazzo è e rimane luogo dell’umano e della sua rovina, dimora “rifondata e risostanziata” senza sosta, nell’afflato di “aprirsi incondizionatamente all’uomo, di guardarne quei confini che si spostano sempre più avanti e risuonano sempre altrove, in uno schiudersi che smaschera soglie e presume un equilibrio continuo tra l’uomo e ciò che costituisce la sua essenza più profonda” (Comoglio). L’intero libro è un esercizio di consapevolezza tragica intrisa di dignità, un’opera che arde e si consuma nel proprio stesso fuoco critico, piangendo il lutto di ogni scrittura che si pretenda stabilmente significativa, per approdare a una remissiva povertà di “germoglio”, che è “infinità magnifica”: “lamento” con “vincolo d’insolvenza”, in cui il linguaggio è abitato dall’umano “odore del dolore”, è “corpo nudo aumentato in parola”. “Arte suprema” rinata dalle sue spoglie, come disciplina d’impermanenza, di umiltà e di resa.

Isabella Bignozzi

Fotografia di Salvatore Marrazzo


da: La dimora di Eraclito (Anterem Edizioni 2025)

La parola scritta è sempre essenziale
Porta dentro finestre
Che affacciano sui giardini
Verso gli azzurri pini del deserto
Una lotta di tempo contro una sequenza di commiati
Di abiti e abitazioni
Del tutto non si vede che un niente
Del taciturno non si sente che una voce
Di me stesso, linguaggio o idioma non sentirete che il muschio
Lussureggiante del salmo
Gli svolazzi di una pagina sopraffatta

*

Vita, tante vite
Bozze apotropaiche ben disegnate
Scritture di chissà quali remote civiltà
Ma che cosa vuol dire pudore?
Preme e basta
Al pari di ogni altro istinto si tratta di polpa
Non di un accessorio
Al più uno stile, una custodia, una zona franca
Sentirsi comunque inadeguati
Uguali al taciuto
Ai rigidi inverni, alle rovine, alle insolvenze

Fotografia di Salvatore Marrazzo

*

Man mano che si procede
L’inopportunità del linguaggio si fa più complessa
Ampia, faticosa
Di conseguenza si distende come un acrocoro
Così il libro va a zig zag
E ai lati sale e scende, respira a stento, va avanti e indietro
Qui una pietra su cui posarsi
o un fiume dentro il quale alleggerire la mente
Là un insensato più limpido che raro
Si ambisce così alla conoscenza e alla solitudine
Al niente, a un albero di cimeli

*

Le costellazioni d`infiniti
Sono l’apparire continuo di sogni, illusioni, follia,
Testi
Non verità ma illimitate strutture di senso
Quei segmenti, linee, tratti spezzati uniti dallo stesso
Destino di essere riscritti
L’esistenza tenace è pur sempre un linguaggio di ripetizione,
Una forma originaria di annuncio
Nell’unità che appare, il disunito è solo ciò che non è preso,
Toccato dagli occhi
Diciamo un testo, una finezza dell’universo

Fotografia di Salvatore Marrazzo

*

Invece, tenuti in disparte,
S’impara il silenzio
L’innocenza del tempo è quest’abbraccio
Illimitato al mondo
Una vecchia poltrona che smonta il suo corpo
Imperfetto, intatto d’assoluto
Miseria d’assenza, seme indelicato, premura,
Una voce bassa
E un’ombra sul confine di agrumi antichi
Chi scrive è già nel precipizio
Assaggia le more pungenti e il timido volo dell’ape

*

Bisogna dichiararlo subito, è un essere spregevole
Un insulso dentro altri corpi
Un insetto malinconico, un albero senza foglie, fanghiglia
Anticamera o tappezzeria
A rendere pensante un testo è la sua perversione
Di attraversare gli oceani
Nella sua impostazione di opera,
Occorre fermare il germoglio, l’infinità magnifica, il lamento
Tener conto di un vincolo d’insolvenza
In un linguaggio non esiste l’arte suprema,
Ma soltanto indizi, i capelli canuti e la goccia

Fotografia di Salvatore Marrazzo

*

Ogni parola è sentire il clamore di tante geometrie, D’inganni, di conflitti aperti
Si sente l`odore del dolore, mai si avverte la dimora
Si tocca l’oltraggio, lo svanire del senso, l’immonda violenza
Di tante sofferenze
Nessun appoggio del piede, nessuna stravagante quiete
Nessun perdono
Solo una lingua che ne diviene un’altra esente da chiarezza
Ancora dopo è il grido di ogni verso
Di questa età dell’oro, di questo carnefice tempo
Di questo corpo nudo aumentato in parola

*

Salvatore Marrazzo è nato a Mercato S. Severino (Salerno), nel 1961. Artista. Fotografo. Filosofo. Collezionista di vuoti. E cose simili. Scrive di libri su blog di letteratura e quotidiani.