
“Frammenti di inesistenza ed allegrie”
puntoacapo Editrice 2025
prefazione di Pasquale Vitagliano
Dalla prefazione:
Giansalvo Pio Fortunato cerca con la poesia un luogo finale di pace e armonia. Ma la sua ricerca è omeopatica. Combatte il caos con il caos. Lascia una nitida voce umana dentro una inestricabile foresta di parole.
“Io avrò lo spettro dei miei versi / Tu l’orfana storia nel non ascolto.”
Con una stentoreità tutta giovanile (e non è un difetto), l’autore sente su di sé il patrocinio amaro del mondo. Ci resta il furore escatologico di questa scrittura. Attacca direttamente e senza sconti il balbettio intellettuale del minimalismo. La sua poesia vuole dilatare a dismisura la parola, sconfinare in territori vastissimi, portare le sensibilità di chi scrive e di chi legge ad incontrarsi in uno stato di quasi allucinazione. Questo è il disordine di cui egli stesso scrive e dal quale intende scappare verso una dimensione onirica di salvataggio e di salvezza. La poesia è la freccia che ci getta oltre.
Pasquale Vitagliano
*
Opera tumultuosa e di cangiante profusione, Frammenti di inesistenza ed allegrie di Giansalvo Pio Fortunato (puntoacapo Editrice 2025, prefazione di Pasquale Vitagliano), è un gesto poetico colto, d’intima ricerca esistenziale e solido impianto filosofico in cui, da posture iniziali di caustica rivisitazione del mito, si perviene gradualmente all’elegia del fuggevole e mancato amore, che prende corpo in materia sinestesica, ardente.
Un tessuto simbolico a trama fitta, che ha per contrappunto ampie parabole di astrazione, a delineare un percorso interiore in cui spiritualità, senso tragico dell’esistenza umana, memoria storica e anelito alla trasformazione – alla trasfigurazione – sono salmodiati in un versificare privo di rigide metriche, eppure coerente nella sua instabilità: un pronunciarsi liminale, quasi “in stato di necessità” – come in Amelia Rosselli – con lunghi fraseggi dall’ordito tellurico, sovraccarico, che s’arrestano improvvisamente in frante brevità, da eloquio spezzato.
Scrittura incarnata, quella di Fortunato, densa di elementi naturali, i puri, gli originari — il mogano, il pesco, il vento, il pane, il grembo – in dialettica feconda con le essenze miliari: il dolore, l’abbandono, il non-senso, ma anche il sacro enigma del cuore umano, che patisce e governa ogni metamorfosi. La profonda conoscenza archetipale e l’ubicazione emotiva mistico-cristologica della voce-guida radicano questo lavoro nelle profondità della tradizione, istruendolo però a un dettato postmoderno, disseminato, spesso apofatico: in cui la parola frantuma il senso e lo rigenera nella calligrafia: questa scalfittura sorvegliatissima, che è gesto santo, salvifico.
Oscillando tra materia e metafisica, con un dire materico sollevato a subitanee rarefazioni, Fortunato centra le sue disgregate intensità nella tenacia visionaria, nell’affezione mistica, intagliata nella tragoidía dell’esistenza, e si pone così a lato di un semicerchio di voci ardite, radicali, come Clemente Rebora, David Maria Turoldo, Cristina Annino, Dino Campana: allucinazione e visione, simbolo e mistero, il dramma erotico, la sacra probità del creato.
Tale impronta orfico-sacrale è in fervido attrito con il codice sintattico dislocato che l’autore pratica ponendosi “nella fenditura” tra memoria liturgica e lussazione, post-traumatica frammentarietà, in cui l’io lirico è stabilmente esposto al crollo semantico, eppure non abdica all’impulso, sempre inaugurale, di nominare, di “dire la primavera risorta/ nei luoghi ombra”.
Articolare, proferire nell’analogia: “sapremo la giuntura cardinale,/ il sensibile di nuclei che si sfiorano”, sentendo la filigrana delle affinità primarie: non ornamento retorico, ma percezione ontologica, che genera un’adunanza poetica enigmatica, densa, spesso intransitiva: non delucidazione ma grido, orazione, umano appello, senz’alcuna nitida esegesi del reale.
Anche in questo senso incarnata, la poesia di Fortunato distende e concreta l’umiltà speculativa di approdo spirituale, la contrizione del suo personale e vissuto De profundis, in una prosodia mobile, volutamente precaria, in cui enjambement e iterazioni spezzano la linearità logica, per dare alla luce miliari prese di coscienza. Un percorso interiore dolente ed epifanico, che nessun riscontro esige dagli aridi scenari esterni, ma s’avvalora in sé, sino a franare in altezze d’ardua cortesia del cuore: potente e taciturna disfatta di carità che rende alieni, assolti, disperatamente liberi.
Isabella Bignozzi

da: Frammenti di inesistenza ed allegrie (puntoacapo 2025):
Mogano V
È la via al Sud
che innesta le praterie mortali
al pesco redento, calibrato
sul margine imperdibile di un occhio –
dal fuoco mogano – nel centro
della rinascenza. Un commiato
sussurra la stasi: metamorfosi
dal capo al segno protratto delle ossa,
scosse nella matrice del legno.
Santa la furia del cambiamento.
Ora Babele aleggia in lontananza
e mai l’aridità a ferire le anime,
l’inesplicabile sollievo di sussurrare
i giardini aperti al vento, alla fanghiglia
retta nella purificazione. Tutto è mortale,
tutto ridiviene; sorte amara
nel fiato che traspira granuli fino al cuore.
Ed è calligrafia: apertura protratta al volto.
In te amo il non scisso, il contorto
che ti tramonta malgrado il rosa
della luce nel pesco. Settembre:
gli anni levigano il ciclo. Ora sa amara
la scrittura nel palmo di Dio;
sei creata nella fenditura, l’ottagono
che è triplicità, la scossa che ti leva
sulla punta polverosa della luce.
Incessante nel prato in fiore
ed acqua in lacrime, si bagna
la corsa al tuo ventre. Ora è giunto
ciò che è spezzato; ora è giunta
la voglia del fiore anemico.
Alla tua carne risponde
la muscolatura redenta:
esercizio all’armonia.
*
Mogano IX
Si delinea perenne
la gara alle resistenze. Un corpo
mai sa costruire la paralisi vivida
di un cigno, l’ornamento scritto
nella preghiera al tuo resistere,
malgrado il tempo.
È vero il giorno,
l’albeggiare di una danza rischiosa
sul capo che trita e muta la punta
e se sarà certezza,
avendo il verso richiamato i palmi
miei alla svelta, avremo un uncino,
una ferita a cui aggrapparci
senza mai recitare il commiato.
Abbandonarsi allo sfondo indesiderato
è la sorte delle nostre rive,
l’insegnamento condotto
nella didattica amara della sussistenza:
ora l’inciampo; ora la tecnica dell’infinito;
ora il dirottato per tempo.
Sapremo smentire le nostre voci,
avanzare per lasciarci con le mani
allo scheletro della vita,
schiene rivolte alle guerre già perdute.
Resisteremo, Mogano, nelle gare
alla vittoria e alla sconfitta:
sapremo la giuntura cardinale,
il sensibile di nuclei che si sfiorano.
Tutto si divaricherà al balzo,
gridando possessi
che centrano le nostre storie.
*
Foce
Sono la foce del vento,
marchio
oltre la distesa in ogni direzione
della sillaba: arriva già la diaspora
di sapermi unito all’ebbrezza
nell’aver vissuto solo,
con gli occhi
che non costruiscono più l’incendio,
se non per dire al mondo
di essere sopravvissuti
alquanto.
*
Gli occhi conoscono sempre
il guscio del dolore: si setaccia
puntuale l’indirizzo, arriva
uno strato di buio
una coltre di anime che sanno scriversi
intatte, senza letizia nel balzo,
con le labbra serrate
ma la carne rigida – a tratti viva –
La mia è una storia di inappetenze:
i denti molli crollano i fiori,
le radici santificano lo stare fuori,
la condizione è un criterio:
la vita accoglie un destino.
*
Adorare le piaghe
e restare nelle sbavature degli altri:
raccontare storie di gioco,
camminate rasenti i cieli
che dicano i nomi delle stagioni
– i passaggi nominati nel ferro,
nella bolgia – poi afferrare i mosti,
la potenza che cuce un cuore, ancora.
*
L’uva è chiamata a retrocedere:
farsi tocco di terra
per arrivare al senso del prodotto
e stare dove attiene
il nome: ciò che si dice del mondo.
Un grembo può fare le mani,
i misteri della giusta spina
gli eventi che sgorgano continui.
*
La luna ha più volti:
Villa Borghese cuce le ritrattazioni,
gli inni della corsa veloce
– perenne – sulle folle.
Hai ereditato i corpi giovani
I cimiteri di pietra fanno il viatico
per una parola mancina:
dove si apre la vita ai sogni,
dove la morte parla distinta.
È questa la biografia.
*
Ed esiste una grazia sovrumana
ad irrigidire il sorriso
di chi adatta la luce alla preghiera:
la mia è questione di ombra nana,
ma onnipresente. O rassegnazione
ad un involucro di camelie,
ad un rudere che piazza gli scalini
al contrario – sulla porta.
L’entusiasmo rassegna un punto fermo:
cerca e trova nascondigli
aventi per direzione
il mondo, l’inciampo della salita
che conosce la lingua e le storie degli eroi
senza scopi: solo per se stesso.
*
Chiama Gerico gli esiti della salvezza:
Dio plasma il buio
col cuore del forte, nel palmo
giusto di chi ama
gli esiti di un rinnegato.
Ecco: la strada vede il mondo,
col mandorlo a frenare le anime
a dire la primavera risorta
nei luoghi d’ombra in ogni fatto.
Ed ami le giustizie del silenzio,
Signore,
le piume verdi di chi sospira alla vita
nella storia, nei flagelli
della polvere e del sangue. Ora
è tempo che si canti il trapasso
che il mondo sappia la lingua guarita,
valorando morte e vita,
donazione di un atto di carne e seno
desiderio di aprire le piaghe,
sentendo l’istruzione del fetore.
Così l’uomo stende la pace,
vestendo la croce di cellula,
adorando i mondi della speranza,
costruendo le stazioni ed i rinnegamenti:
è voce da solitudine. Io
che ti invoco, Signore –
Signore, esaudisci la mia voce –
per cogliere il deserto,
la storia dei nidi di ragno
dell’acqua che sgorga dalla fessura
a creare sorgente e dono.
Signore, sono all’alba e al tramonto:
mi muovo
*

Giansalvo Pio Fortunato è nato a Santa Maria Capua Vetere nel 2002. Attualmente risiede a San Marcellino (CE) e frequenta la Facoltà di Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. In poesia ha pubblicato Ulivi nascenti (Albatros il Filo 2022), Civiltà di Sodoma (RP Libri 2023), e il presente Frammenti di inesistenza ed allegrie (puntoacapo 2025). Ha ottenuto alcuni riconoscimenti letterari; suoi versi sono stati tradotti in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti e inseriti nell’antologia Parole Giovani dall’Italia edita in America Latina per la Casa della Poesia di Cuba. È stato tradotto in inglese, albanese, polacco (nell’antologia italo-polacca Panta rei), in arabo (per la rivista internazionale FormaFluens), in russo ed inglese (per l’antologia italo-russa Oliver Branch of Poetry). È redattore del blog «Le Parole di Fedro». Collabora col mensile culturale «Agorà Giovani» (Ed. Scuderi), con la rivista internazionale di poesia «FormaFluens – International Literature Magazine» e con le riviste nazionali di poesia «Metaphorica» e «Il Mangiaparole». Ha partecipato alla quarantesima edizione del festival poetico «Confluenze» indetto dal Comune di Arezzo.