Vincent van Gogh, Campo di grano con corvi, 1890, Van Gogh Museum, Amsterdam


1.
Già Leonardo aveva tracciato, nei disegni del Diluvio, gli appunti per un’arte futura che non fosse solo architettura mentale di forme.

Leonardo da Vinci, Diluvio 1517-1518, The Royal Collection HM Queen Elizabeth II (particolare)



Così in Piero di Cosimo e nella sua predilezione per le crepe, gli sputi, le macchie, in Alexander Cozens e nelle sue macchie-foreste, nelle sagome di certi cavalli del Pisanello, nell’ombra di alcune mele di Cézanne, l’arte visiva esce dalle griglie della perfezione annunciata.


Pisanello, schizzo di una testa di cavallo, XV secolo


Auguste Renoir, dipingendo la campagna di Aix, ne fa un’ode alla luce amorosa e modella confini e colori in un movimento ininterrotto, senza farsi bloccare dall’ossessione della geometria. Più della luce celeste di Piero della Francesca o di Paolo Uccello, torna necessaria la luce opaca, matrice di pietas e dignità, delle figure di Masaccio, la passione emanata dai corpi tormentosi del Mantegna, di cui saranno diretti eredi Rothko, con i suoi colori di soglia, e Tapiès, con le sue superfici violate. L’arte contemporanea si è spesso lasciata sedurre dagli alfabeti superficiali dell’astrattismo: nell’autentico astrattismo perturbante e decisiva è la vibrazione emotiva della materia pittorica, di cui Tapiès è maestro. Opaca o luminosa, oltraggiata e imperfetta, la sua materia è tragica perché suppone un corpo che vi si sia perduto, perché non dimentica mai che il quadro è anche una casa per il corpo, un oggetto per il tatto.


Antoni Tàpies, Great painting, 1958


2.

Tutto ciò che sembra astratto appartiene di diritto al mondo della rappresentazione: ma senza immagini riconoscibili il cubismo diventa la caricatura del plasticismo e l’astrattismo la semplificazione dell’impressionismo. Viene a mancare quella grazia istintiva e impetuosa, che dà colore al disegno e disegno al colore. Due ali di corvo, ad esempio, in un cielo. Due segni neri nel bianco – occasioni, per lo spettatore, di molti quadri possibili. Victor Hugo lo aveva capito, dipingendo un torrione in macerie come un frammento astratto e mostrando l’aria che lo circonda.


Victor Hugo, La Tourgue in 1835, 1876, Musée de la Ville de Paris (particolare)



Vincent Van Gogh scrive: «Se chiedessi a Millet di dipingere un paesaggio nevoso senza usare il bianco, io so che lo farebbe. E la neve, certamente, sembrerebbe bianca». Il pittore afferma che il bianco, come colore puro, è usato raramente in pittura: nella maggior parte dei casi il pittore inventa, con raffinati stratagemmi, la sua illusione. Se circondato da certi colori, come il vermiglio o l’azzurro, il grigio scuro sembra bianco e noi vediamo la tovaglia di lino quando la attraversa la luce della lampada, la neve quando è caduta sull’erba da qualche giorno, la vernice nel momento in cui comincia a scrostarsi dal muro umido. In Jacopo da Bassano il mantello della donna inginocchiata è di un bianco denso e preciso, con riflessi argentei. Il segreto del pittore consiste nell’averlo scavato dal nero con pennellate lievissime e sovrapposte. Grigi e neri – colori che dovrebbero suggerire i timbri della notte – costruiscono l’illusione della luce, che l’occhio umano scambia per una zona bianca della tela. Il bianco, in realtà, non esiste. «Sono numerosi i pittori – scrive Van Gogh – che hanno paura di una tela bianca, ma la tela bianca ha paura di un vero e appassionato pittore, capace di osare».


Jacopo Bassano, San Valentino battezza Santa Lucilla, 1575, Museo civico di Bassano del Grappa


3.

La luce fa sparire, mostrandolo, il volume delle cose. È vibrazione aerea, inquieto pulviscolo di cui Séurat cerca invano di fissare le leggi e che Van Gogh vede come una colata lavica che cancella la materia del mondo. Come dopo di lui Soutine, Van Gogh indica una nuova strada: concentrarsi sull’oggetto della percezione non cercandone soltanto l’architettura esterna o le proiezioni soggettive, ma rappresentandolo in tutta la sua interezza, reale e irreale, visibile e invisibile, come sul punto di esplodere. Tenendolo lì, riconoscibile, ma sul margine del disastro, brulicante, inquieto, ricolmo di tutti i possibili, fermato da un’attenzione visionaria. L’analogia con un oggetto familiare e verosimile mantiene vivo il pathos del proprio sguardo personale, della propria particolare ossessione; attribuisce, attraverso l’unità della vista e della visione, un nuovo senso all’arte plastica, inventa un rapporto inedito fra soggetto e oggetto, che turba la quiete della precedente rappresentazione. Così il primo Kandinskij, quando le sue forme evocano oggetti quasi reali, è più misterioso dell’ultimo, che prelude all’epigono Mirò, laborioso produttore di astratti e nitidi frammenti – arabeschi e non esplosioni. E le composizione, apparentemente espressioniste e furiose di Bacon, affondano in una spettrale figuratività che richiama solo l’esistenza umana.


Vassily Kandinsky, Quadro con arciere, 1909, New York, The Museum of Modern Art (particolare)



Francis Bacon, Study for a head, 1952, Beaux Arts Gallery, London. (particolare)


Un vedutista tradizionale potrebbe inquadrare il ponte e il salice come visione pittoresca del classico ponte romano sotto le fronde decorative del salice. Ma la stilizzazione non riesce mai perfetta, così come in certi quadri “giapponesi” del primo Van Gogh. La veduta sfugge al controllo del pittore, colpa del vento che addensa le nubi, dell’ombra di uno stormo di uccelli, dell’umore capriccioso dell’esecutore. Non resta nessuna realtà da trasmettere se non quella del rapporto, nell’atto della pittura, fra rétina e cosa vista: il resto è accademia. La via che va dall’interno dell’uomo all’esterno del mondo è l’occhio intimo e ardente che distingue il veggente dal vedutista e scardina per sempre le forme codificate del mondo, come Monet mostra nelle sue Ninfee.


Claude Monet Nymphéas, 1916-1919. Parigi, Musée Marmottan Monet


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Marco Ercolani


Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore. Per la narrativa ha scritto: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Prose buie, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori, Un uomo di cattivo tono, Senza il peso della terra, Storie forse incubi, Essere e non essere. Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, Fuochi complici, L’archetipo della parola, Galassie parallele. Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Sentinella e Nottario.
Partecipa al convegno internazionale “Bruno Schulz: il profeta sommerso”. Vince il Premio Montano, il Premio Aforisma – Torino in sintesi, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In collaborazione con Massimo Barbaro scrive Paesaggio con viandantiL’arte della distanza, Corrosioni. Nel 2020 ristampa Il mese dopo l’ultimo (Amazon independently published), con fotografie di Chiara Romanini e postfazione di Giorgio Galli. Con Lucetta Frisa ha fondato e diretto la rivista “Arca” e “I libri dell’Arca”.
Attualmente Marco e Lucetta sono redattori della rivista online “La foce e la sorgente” per “La dimora del tempo sospeso”. In coppia hanno scritto: Détour, L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci, Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima. Di recente pubblicazione, per le Edizioni Medusa, L’età della ferita, una riflessione sui diari di Kafka.
Siti web:
www.marcoercolani.it
https://ercolani.art.blog/